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Quello che non sappiamo su Jonathan Galindo e quello che dovremmo sapere su come stare sui social network

01 Ottobre 2020 - 13:11 Valerio Berra
Per come è stato descritto è un fenomeno che ricorda Blue Whale o Momo. Leggende urbane, “creepypasta” in gergo, di cui non si riesce a mai a tracciare un confine preciso

Napoli. Un ragazzo di 11 anni apre la finestra del balcone che si trova all’undicesimo piano del suo palazzo. Supera la ringhiera e si getta nel vuoto. Suicidio, sembrerebbe. Dalle prime informazione che vengono fatte trapelare dalle indagini compare però anche un altro elemento. Una strana sfida sul web, forse un adescamento. Un profilo social con il volto di uomo travestito da cane, simile a Pippo, compare di Topolino, ma con una sfumatura più inquietante: Jonathan Galindo.

Le indagini non hanno ancora restituito uno scenario chiaro di quello che sta succedendo. Eppure questi elementi bastano per portare Jonathan Galindo all’attenzione dei media italiani. Il folle gioco social che spinge ad uccidersi, Il gioco social che spinge i giovani all’autolesionismo e ancora Il nuovo fenomeno virtuale. L’associazione non è difficile. Leggendo questi titoli si pensa subito al caso Blue Whale o Momo, una di quelle tante storie che mischiano horror e web di cui non si riescono mai a tracciare bene i confini. Creepypasta si chiamano in gergo.

Alle origini del meme

«Ciao a tutti. Questa follia di Jonathan Galindo sembra che stia terrorizzando molti giovani impressionabili». Il 3 luglio scorso l’account Dusty Scan ha pubblicato una serie di tweet che iniziano con queste parole. Dusty è un video maker, esperto nella creazione di maschere. Tra il 2012 e il 2013 ha diffuso sui suoi social delle foto in cui si ritrae mentre indossa una maschera con le sembianze di un cane. Nessuna voglia di spaventare, tanto meno di rivolgersi ai minori. Eppure, come spesso succede, quelle foto diffuse sul web hanno acquistato vita propria.

La storia è stata ricostruita dal Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze. Nel 2017 quelle foto vengono prese e usate per confezionare una storia horror in cui un account social con il nome di Jonathan Galindo cercherebbe di adescare bambini convincendoli a fare giochi sempre più pericolosi, fino a spingerli al suicidio. Il caso riacquista popolarità nel 2019. Prima un account ispirato a questo creepypasta sbarca su TikTok e poi ne parla anche l’influencer messicano Carlos Name.

Esattamente come successo per il caso Blue Whale, l’effetto mediatico è a cascata. Sui social cominciano a spuntare account con questo nome, seguito da numeri o lettere per aggirare i doppioni. Allo stesso tempo cominciano a moltiplicarsi gli articoli di giornali che lo definiscono un nuovo fenomeno social. Ora alcune piattaforme, come TikTok, hanno preso dei provvedimenti per bloccare gli account che si riferiscono a Jonathan Galindo ma la storia è esplosa.

Le segnalazioni di Ancona e le parole del ministro Boccia

Prima del caso di Napoli, in Italia si era già cominciato a parlare di Jonathan Galindo. L’8 luglio 2020 il Resto del Carlino ha pubblicato un articolo dal titolo Jonathan Galindo, la folle sfida. Un gioco all’autolesionismo. Qui vengono citati casi nelle Marche, tra Ancona, Jesi e Falconara. Si parla di «segnalazioni alle forze dell’ordine». Segnalazioni che, secondo le fonti ascoltate da Open, non sarebbero però mai state formalizzate ufficialmente con una denuncia alla polizia postale ma solo riportate ad agenti di polizia in modo informale.

Anche il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia si è occupato di Galindo. A poche ore dalla diffusione della notizia del caso di Napoli ha pubblicato un post su Facebook in cui, oltre a dare per certo la dinamica che lega la morte del bambino al gioco online, chiede «pene esemplari» per chi istiga al suicidio e programmi di «educazione digitale» nelle scuole.

Oltre Galindo, il ruolo dei genitori sul web

Come tutti i creepypasta il rischio è quello che una storia iniziata come spunto per raccattare qualche click poi diventi qualcosa di vero. Che siano ragazzi in vena di scherzi o pedofili davvero interessati ad adescare minori, gli account con il volto da cane deformato e il nome Jonathan Galindo esistono davvero. Ed è uno dei tanti spunti che secondo l’esperta di pedagogia Paola Cosolo dovrebbero convincere i genitori a prestare attenzione a quello che i loro figli fanno in rete.

«Il problema è che gli adulti sono i primi a non essere in grado di usare i social. Postano qualsiasi cosa, lasciano trasparire ogni informazione possibile. Sembra che recuperino per primi un atteggiamento adolescenziale. Guardi TikTok, era nato come una piattaforma per balletti e canzoni dedicata agli adolescenti. Ora è piena di adulti», ci dice. Oltre a non essere in grado di leggere un mondo diverso da quello in cui sono nati, per Cosolo il problema dei genitori sarebbe anche quello di non fidarsi abbastanza degli esperti.

«Esistono linee guida per i social e certificazioni per i videogiochi. Tutte cose che vengono ignorate sistematicamente da genitori che per la paura di passare come troppo autoritari non controllano cosa fanno i loro figli in rete e i siti su cui navigano». Il paragone, secondo Cosolo, è semplice: «Invito tutti i genitori a trattare il web come una lavatrice: leggete le istruzioni prima di usarlo o prima di farlo usare agli altri».

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