I 130 milioni sull’orlo della morte per fame e le conseguenze trascurate del Covid: ecco perché il Nobel (inaspettato) al World Food Programme è giusto

di Cristin Cappelletti

«Il cibo è il miglior vaccino contro il caos». Così il premio al Wfp ricorda le conseguenze trascurate della pandemia

«Siamo davanti a una catastrofe umanitaria, la peggiore dalla seconda guerra mondiale». Erano queste le parole usate ad aprile dal direttore esecutivo del World Food Programme, David Beasley, per richiamare l’attenzione dei governi internazionali alla crisi umanitaria di cui da lì a poco saremmo diventati tutti più consapevoli. Sei mesi dopo la commissione norvegese ha consegnato al World Food Programme il Nobel per la Pace «per i suoi sforzi per combattere la fame, per il suo contributo al miglioramento delle condizioni per la pace nelle aree colpite dai conflitti e per aver agito come forza trainante per prevenire l’uso della fame come arma di guerra e conflitto».


L’agenzia delle Nazioni Unite con sede a Roma fornisce ogni anno assistenza a 86,7 milioni di persone in 83 Paesi. Nonostante la riduzione della povertà sia stata inserita tra gli obiettivi di sviluppo del millennio da raggiungere entro il 2030, una persone su nove al mondo non ha di che sfamarsi. E la pandemia ha invece reso ancora più evidente le grandi disuguaglianze che affliggono il nostro pianeta. Sono i poveri, compresi ampi segmenti delle nazioni più povere del mondo, ad affrontare la prospettiva di poter morire di fame.


Ma nell’anno della pandemia il toto-vincitori dava tra i favoriti anche l’organizzazione mondiale sanità (Oms). Difficile però, dopo i confronti accesi con gli Stati Uniti, che Oslo decidesse di inimicarsi gli Usa. Senza contare le molte accuse rivolte all’Oms per la mancata tempestività nel dare l’allarme e direzionare i governi mondiali sulle strategie di contenimento. A premiare il World Food Programme sembra essere stato il suo impegno diretto sul campo e la sua tempestività di reazione alle emergenze rispetto alla Fao – da cui dipende -, quest’ultima immischiata negli ultimi anni in diversi scandali sessuali e di corruzione.

L’ultima speculazione sulla struttura traballante della Fao è stata quella relativa alla nomina del suo attuale direttore generale, il cinese Qu Dongyu, eletto nel 2019 non tra poche polemiche. Secondo Le Monde, la vittoria dell’ex vice segretario all’agricoltura del governo cinese sulla candidata di Emmanuel Macron, Catherine Geslain-Lanéelle, sarebbe arrivata attraverso diverse tangenti e scambi di favori.

«Una intensa pressione cinese», aveva scritto il quotidiano francese, avrebbe spinto il candidato africano Medi Moungui dal Cameroon ad abbandonare la corsa dopo che Pechino ha promesso di cancellare 70 milioni di dollari di debiti. Una trama simile sarebbe stata portata avanti con alcuni Paesi sudamericani tra cui Brasile, Argentina e Uruguay. La nomina di Qu è stata vista come parte di un piano più ampio di Pechino per penetrare negli organi delle Nazioni Unite in preparazione della sua massiccia iniziativa infrastrutturale cinese della Belt and Road.

Anche il World Food Programme è finito però nell’occhio del ciclone. Nel 2018 il suo direttore in Afghanistan fu costretto a dimettersi dopo le accuse di abusi sessuali. Da allora l’agenzia ha modificato le sue norme in materia di denuncia degli abusi spingendo per più trasparenza rispetto al clima di omertà che circonda le agenzie internazionali delle Nazioni Unite legate al mondo della cooperazione. «Quel tipo di atmosfera è inaccettabile. Dobbiamo e troveremo modi per assicurarci che le persone si sentano sicure di essere protette quando segnalano comportamenti scorretti», ha scritto Beasley in una lettera ai suoi dipendenti nel gennaio 2018.

E proprio nell’era Covid-19 sono le donne a essere esposte a un rischio maggiore di sfruttamento sessuale. È inoltre in aumento il numero di famiglie che danno in sposa le loro figlie in cambio di doti per provvedere alla sussistenza familiare. Entro la fine del 2020 saranno invece 130 milioni le persone sull’orlo della morte per fame. Persone che vivono in Paesi in guerra, come lo Yemen, la Siria, la Nigeria, il Sud Sudan e il Congo. Una consequenzialità che aiuta a comprendere – forse – la rilevanza di un premio che risulta quasi come un monito. «Il mondo rischia di vivere una crisi della fame di proporzioni inconcepibili se il Programma alimentare mondiale e altre organizzazioni di assistenza alimentare non ricevono il sostegno finanziario richiesto», ha ricordato l’organizzazione del Nobel nel suo annuncio.

Foto copertina: EPA/YAHYA ARHAB | World Food Programme/Sana’a, Yemen

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