Coronavirus, il racconto di due pazienti del Cardarelli di Napoli: «Persone ammassate ovunque, rifiuti ed escrementi a terra. Qui è l’inferno»

di Felice Florio

Pasquale Mignano, 70 anni, e Stefano Calafato, 48, sono stati ricoverati a inizio novembre nell’Osservazione breve intensiva del nosocomio campano. E parlando con Open hanno deciso di denunciare le condizioni «disumane» di quel reparto

«Avevo paura di morire: vedevo passare sacchi con i cadaveri, a terra c’erano sangue ed escrementi, gli infermieri non ci assistevano come dovevano. Voglio raccontare quello che ho visto affinché qualcosa cambi». L’uomo che parla, con voce stanca ma rilassata, si chiama Pasquale Mignano. Dopo un ricovero all’ospedale Cardarelli, è stato trasferito nella clinica di Santa Patrizia di Secondigliano: adesso si trova lì, ricoverato perché positivo al Coronavirus. Ha 70 anni, è pensionato e vive da sempre a Napoli. «Voglio denunciare pubblicamente quello che succede al Cardarelli», dice.


Circa venti giorni fa, Mignano viene ricoverato all’ospedale dei Pellegrini per un’aritmia al cuore. Dopo l’intervento, si rendono necessari ulteriori accertamenti, e viene portato al nosocomio Monaldi. «Due domeniche fa – il primo novembre – non mi sono sentito bene e mia nipote mi ha accompagnato al Cardarelli», racconta. Viene sistemato su una brandina «vicino all’ingresso, dove c’erano i vetri e faceva molto freddo. Ho chiesto una coperta ma nessuno me la portava». Il senso di abbandono, già dalle prime ore, è forte e Mignano insiste con gli infermieri per essere assistito.


«Se fossi rimasto al Cardarelli, sarei morto»

«”Se non ti conviene stare qui te ne puoi anche andare”, mi ha detto uno di loro. Ho passato tantissime ore vicino a quel vetro, gelido, con decine di persone malate di Covid che mi passavano davanti». Infine, dopo aver ricevuto l’esito del tampone, Mignano viene trasferito nell’Osservazione breve intensiva dell’ospedale. Con lui, ci sono altre 70 persone positive al Coronavirus. «Ci ho passato otto giorni in quel reparto fino a quando, dopo molte insistenze, domenica 8 novembre sono stato spostato alla clinica Santa Patrizia. Qui le stanze sono pulite, mangiamo cibo buono. Se fossi rimasto al Cardarelli, sarei morto».

Mignano fa fatica a parlare, ma ricorda bene cosa ha visto nell’ospedale al centro delle polemiche per la morte di un paziente nel bagno della struttura: «Ero nel mezzo di una porcheria. Non ero tanto malato quando sono arrivato, eppure ero stato messo in una cagnara di malati in preda al dolore. Il freddo, ricordo il freddo che sentivo e nessuno che se ne preoccupava». Poi racconta una scena che, dice, sogna ancora la notte: «Un vecchietto stava male, si lamentava. È stato preso e scaraventato nudo, con il pannolone sporco, su una brandina e abbandonato lì per tutta la notte».

Il 70enne ricorda di avere visto «escrementi e sangue ovunque, il pavimento era pieno di rifiuti». Ammette che gli dispiace raccontarlo, perché «non sono tutti così», ma «gli infermieri non erano veri uomini, si comportavano da bestie: ridevano vicini ai cadaveri delle persone che sono morte davanti ai miei occhi, da sole, abbandonate». Mignano non ce la fa più a parlare: l’emozione per quello che ha vissuto e l’affanno, causato dalla malattia, prevalgono: «Prima di chiudere, passo il telefono al mio vicino di letto, anche lui vuole parlare».

«La gente era ammassata ovunque»

Il vicino di letto si chiama Stefano Calafato, ha 48 anni, è un grafico che vive e lavora a Napoli. Adesso è ricoverato insieme a Mignano nella clinica Santa Patrizia, «ma anch’io ho passato qualche giorno nell’Osservazione breve intensiva del Cardarelli, l’Obi». Descrive l’ingresso al reparto, separato da una porta di ferro dall’area di accettazione del pronto soccorso. «Nell’Obi ci vanno i malati di Covid prima di essere smistati in altri reparti o strutture. La prima cosa che ho notato, appena arrivato, è che sulla parete c’era scritto che quella stanza era predisposta per 39 persone. E le postazioni erano pure ben fatte, ognuna con la sua bombola di ossigeno. Il problema però, è che al suo interno eravamo più di 70 pazienti, la gente era ammassata ovunque».

Vicino al lettino assegnatogli – dice Calafato -, sul pavimento ci sono siringhe e sangue. «Ho chiesto di pulire e l’hanno fatto. Poi mi sono sdraiato sulla brandina, ma era così piccola che le gambe sporgevano fuori e il lenzuolo datomi era leggerissimo. Se sentivo freddo io, non oso immaginare gli anziani che erano ricoverati lì». La descrizione del 48enne è affine a quella di Mignano: «Vecchietti nudi con il catetere da fuori. Quando si alzavano per camminare perdevano escrementi dal pannolone». Le pulizie – dice – vengono fatte solo la mattina: «Una notte mi sono alzato per andare in bagno. Ho dovuto scansare gli escrementi altrui, i pappagalli e le siringhe a terra. Arrivato alla toilette, era impraticabile: ho dovuto fare pipì provando a prendere la mira dall’uscio».

ANSA / CIRO FUSCO | L’ingresso del Pronto soccorso del Cardarelli.

Quel luogo, per Calafato, è un inferno. Ma la responsabilità non è degli infermieri, «ce n’erano quattro o cinque che dovevano accudire decine di vecchietti, poverini, che non facevano altro che chiedere aiuto». Poi, però, denuncia quanto ha visto un giorno: «Un anziano si stava lamentando, soffriva. È arrivato un infermiere che gli ha dato dei colpi forti in mezzo al petto gridando: “Tu la devi finire di chiamarci”. Quello che so io è che, quel vecchietto, stava abbastanza bene, non aveva bisogno del respiratore. Dopo un’ora da quei colpi sul petto, quell’uomo è morto davanti ai miei occhi».

«Sono andato al Cardarelli perché il medico di base mi ha consigliato l’ossigeno per il principio di polmonite. In ospedale mi hanno fatto due iniezioni sulla pancia e, dopo tre giorni in quelle condizioni disumane, non respiravo più», dice Calafato. Da quando viene trasferito alla clinica Santa Patrizia, Calafato migliora: «Non ho paura di raccontare quello che ho visto al Cardarelli, ho paura di quello che può succedere ai vecchietti lasciati nudi tutta la notte, al freddo, su piccole brandine e in un reparto che può contenere la metà delle persone».

Calafato parla anche di macchinari per le radiografie che attraversano la sala, con gli infermieri che invitano le persone doloranti sulle brandine ad «allontanarsi dai raggi». Poi, le immagini dei pannoloni colmi di escrementi a terra. La solitudine, durante la notte, tra i lamenti e gli odori. Calafato è stato ricoverato al Cardarelli il 5, il 6 e il 7 novembre. Afferma: «Il problema di quel reparto è che entri malato di Covid, ma senza essere in condizioni critiche, ed esci morto». E conclude: «Se Dante, oggi, fosse vivo e dovesse scrivere l’Inferno, si ispirerebbe al Cardarelli durante l’emergenza Coronavirus».

La replica del Cardarelli

Open ha cercato di contattare il Cardarelli per una replica. Il numero di telefono dell’ufficio stampa, raggiunto attraverso il centralino, risulta scollegato. Contattato l’Urp dell’ospedale, la risposta dell’operatore è stata: «L’ufficio stampa non ci sta». Abbiamo telefonato alla direzione sanitaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni: «C’è un addetto stampa esterno che cura la comunicazione e si occupa delle repliche». Si tratta del giornalista Raffaele Nespoli. Riportategli le testimonianze, l’addetto stampa del Cardarelli ha spiegato: «In questo momento la linea è quella di non rilasciare dichiarazioni per dare un po’ di serenità agli operatori sanitari, faccio un passaggio con la direzione e chiedo se c’è qualcuno che vuole commentare». Dopo un’ora, arriva la conferma: «La direzione preferisce non parlare».

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