Diari migranti: quattro storie dai vincitori dell’ultimo concorso DiMMi

Giovani di origini o provenienza straniera che hanno vissuto o vivono in Italia si raccontano in prima persona, dopo essere fuggiti dalla guerra in Gambia, Afghanistan e Iran

Raccogliere, conservare e valorizzare storie migranti capaci di svelare cosa c’è dietro gli spostamenti di individui, famiglie, popolazioni, andando oltre gli stereotipi e mettendo al centro le persone, in modo particolare studenti e studentesse delle scuole secondarie e delle università. Ragazzi e ragazze di origine o provenienza straniera che hanno vissuto o vivono in Italia. È questo il senso del concorso nazionale DiMMi – Diari multimediali migranti, giunto alla sesta edizione.


Le organizzazioni coinvolte, a partire dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo che finanzia l’iniziativa, sono impegnate nella promozione di un fondo speciale di diari migranti presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, nato per proteggere un patrimonio culturale che rischia altrimenti di andare perduto. Open ha riunito quattro storie che hanno vinto l’ultima edizione del concorso e che saranno pubblicate integralmente nel 2021 da Terre di mezzo. Eccole in anteprima, sotto forma di estratti.


Abdoulie Bojang (classe 1995), Gambia. Estratto da Dreams of hope, scritto in inglese

Cosa succede ora, quando vedi centinaia di giovani uomini validi che rischiano tutto? Da dove ero seduto la stessa domanda che risuonava ossessivamente. Perché? 

Se solo fossimo rimasti a combattere per migliorare la nostra vita! Ma io sapevo dalla mia viva esperienza che non puoi combattere il potere. Alcuni potrebbero aver perso tutte le speranze per il terrore delle dittature e per la mancanza di opportunità, ma il fatto di lasciare la casa e la famiglia e tutto il resto è di gran lunga la cosa più difficile che un essere umano possa affrontare, perché si potrebbe imbattere in qualunque situazione, si potrebbe ritrovare in qualunque posto. Per me questo viaggio non è stato un’avventura, ma la conferma che quando la tua vita è al limite, quella è la volta che impari qualcosa di te stesso. 

La vita è meravigliosa e vale la pena correre rischi per proteggerla con tutti i mezzi. Il vero coraggio sta nell’affrontare il pericolo proprio quando hai paura, e questo pericolo avrebbe distrutto alcuni.. qualcuno sarebbe morto e qualcun altro sarebbe sopravvissuto. Ma i nostri sforzi erano reali. 

Non avevo pianificato la vita in questo modo. Siamo cresciuti poveri e volevamo avere giorni migliori, perché pensavamo che sarebbe stato più bello. Per stare meglio di come stavamo. Pensavamo che avremmo fatto qualcos’altro con le nostre vite. 

Ma sono cresciuto con sorelle e fratelli che non sono più qui. 

Alcuni sono morti sulla Back way – gli oceani li hanno inghiottiti. Alcuni sono impazziti, altri sono morti di malaria o di altre malattie curabili. Altri sono ancora in prigione in Gambia per un po’ di erba. 

Per una generazione che vedo ogni giorno sprecare, gemere, lamentarsi, lottare per sfuggire alla povertà che ha ereditato. Per madri e padri che hanno accettato un destino di orrori e di un pasto al giorno. Per madri che guardano i loro bambini andare a letto affamati mentre si allontanano da loro con le lacrime agli occhi. 

Io sono il prodotto di un sistema del genere. 

La mia famiglia non ha mai avuto nulla e questo mi ha trasformato in un attivista. Non mi sono mai inchinato né ho mai giurato per un politico o un partito. La mia unica inclinazione è quella di vedere il vero cambiamento e la dignità per la nostra gente oppressa. Siamo solo gente normale. Solo persone comuni indurite da quello che abbiamo vissuto. Quando ci imprigionano, siamo dimenticati e quando moriamo è una rapida sepoltura perché non abbiamo mai contato nulla.

Toriale Hashemi (classe 1994), Afghanistan. Estratto da memoria senza titolo, scritta in pashto

L’Afghanistan è in guerra da quasi 45 anni ormai, io sono nato e cresciuto nel pieno della guerra. 

Vorrei raccontare qualche ricordo importante legato alla mia infanzia. 

Non mi ricordo esattamente quanti anni avevo, ero molto piccolo però, la nostra casa si trovava vicino ad una strada principale. Mentre si stava svolgendo un conflitto armato tra i Talebani e altri gruppi armati, ho sentito uno sparo e dalla curiosità sono salito sul tetto della mia casa per vedere cosa stava succedendo, pensavo fosse un gioco, non sapevo ancora che quelle armi, che io all’epoca consideravo giocattoli, avessero il potere di uccidere le persone. 

Quando sono salito sul tetto, mia mamma è corsa verso di me urlando spaventata, mi ricordo che mi sgridò molto e mi disse che mi avrebbero ucciso, tirandomi subito giù, poi mi ha abbracciato forte e si è messa a piangere, in quel momento a casa eravamo soltanto io, mia mamma e mio fratello. 

Quando ero su quel tetto, mi sono messo ad osservare quelle persone con in mano le armi, pensavo stessero giocando ma poi sentendo la preoccupazione della mia mamma e il suo dolore, ho capito che non era un gioco ma qualcosa di davvero spiacevole, è stato proprio in quel momento che ho capito che cosa significava il termine guerra e vivere in un territorio dove quest’ultima è considerata la normalità. 

Lo stesso giorno, verso sera, mia mamma preoccupata raccontò l’accaduto a mio padre, lui mi abbracciò e con una espressione molto preoccupata e disperata mi disse esattamente queste parole: “Figlio stai dove la mamma ti dice di stare”.

Zahra Kian (classe 1980), Iran. Estratto da Scian, scritto in persiano

Sono nata in primavera come i miei genitori. 

Sono la numero otto tra i dieci figli della famiglia. Ho una sorella e un fratello più piccolo di me. Mio padre ha due fratelli e mia madre era figlia unica, forse il fatto che lei era l’unica figlia ha deciso di fare tanti figli. 

Della mia infanzia a parte la guerra ho solo bei ricordi di giochi e felicità. La mia miglior amica era mia sorella che abbiamo due anni di distanza. Con lei facevamo delle bambole e la ceramica, potevamo fidarci e ci dicevamo i nostri segreti. La più grande influenza che ho avuto da lei era leggere. 

I miei fratelli e le mie sorelle hanno avuto una grossa influenza sul mio carattere e i miei genitori hanno preparato le basi. Devo dire che succedeva spesso che non ci trovavamo d’accordo con i nostri genitori e abbiamo avuto anche scontri ma alla fine loro accettavano il fatto che i loro figli dovevano fare la loro esperienza. Non ci hanno mai ostacolati e questo era l’aiuto più grande che ci potevano dare. 

La casa di mio padre aveva un cortile grande con gli alberi di fico, la vite e le ciliegie. C’erano anche delle piante di rosa e gelsomino, qualche anno dopo il gelsomino è stato sradicato perché infastidiva Kiarahman che durante la guerra è stato ferito con una bomba che gli è scoppiata molto vicino e ogni tanto aveva emicranie. 

Per entrare dentro la casa dopo aver attraversato il cortile c’erano delle scale. Ho in mente l’immagine più bella di mia madre su quelle scale. Mia madre soffriva di astenia, aveva bisogno di aria fresca perciò ogni mattina apriva tutte le porte e le finestre della casa poi si sedeva sulla scala e iniziava a pettinare i suoi capelli lunghi sotto la luce del sole.

Amir Faghihi (classe 1966), Iran. Estratto da La mia storia, scritto in italiano

Quando io ho preso il diploma, la guerra (fra Iran e Iraq), era ancora in corso. Io non volevo rimanere in Iran perché la mia scelta era studiare come tecnico di aeroplano, cosa che in Iran era impossibile, anche dopo il diploma ero obbligato a fare il servizio militare. 

Quindi ho lasciato la mia famiglia e sono andato a Dubai illegalmente, perché mio zio abitava là. Dopo un po’ tutta la mia famiglia si è trasferita a Dubai. Per la seconda volta la famiglia era unita. Io volevo raggiungere solo il mio obiettivo. A quel tempo avevo 19 anni. 

Io ero fuori dal mio paese ma il mio cuore era rimasto in Iran, perché avevo perso molti dei miei amici e i miei ricordi. Io sentivo che avevo abbandonato il mio popolo sotto il regime, ma io ero scappato. Io sentivo che dovevo fare qualcosa per liberare il mio popolo. 

Dopo mesi ho conosciuto l’unico gruppo militare molto famoso e molto attivo che combatteva contro il regime e l’unico gruppo che era rimasto. Fino a quel momento più di 120.000 persone erano state uccise nelle galere e per strada e poi migliaia erano state uccise nella guerra. La parte occidentale del mio paese era stata danneggiata nella guerra. In poche parole, il mio paese era ritornato indietro di circa un secolo su ogni punto. 

Dopo aver conosciuto il gruppo, piano piano cambiava la mia idea e la mia scelta per il mio futuro, ma la mia famiglia non mi permetteva di cambiare la mia idea e insisteva perché proseguissi i miei studi. Dopo 1 anno ho potuto comprare un passaporto illegale e poi sono venuto in Italia nell’inverno 1987 per vivere e studiare. 

Dopo circa 6-7 mesi ho sentito che non potevo continuare a vivere in contrasto con me stesso, dovevo decidere. Durante questi mesi era scoppiata una guerra dentro di me. C’erano 2 strade: 

– Perdere tutte le mie possibilità che già avevo guadagnato e andare in una terra molto calda , deserta e con nessuna possibilità per me, vivere duramente, mollare la mia famiglia, ect . 

– Studiare e arrivare all’obiettivo che per anni avevo perseguito. 

Mi piacevano entrambe. La prima strada era più vicina al mio cuore, perché tenevo più al mio popolo che a me stesso. Infine ho deciso; ho lasciato tutte le mie possibilità e sono andato vicino al confine con il mio paese e mi sono unito a altri iraniani che si trovavano là.