Il Brexit Deal visto dall’Italia: cosa dobbiamo festeggiare e cosa temere a questo punto

Per l’economia le cose sono andate abbastanza bene. Lo stesso non si può dire per chi puntava a studiare o trasferirsi oltremanica

A pochi giorni dalla scadenza che avrebbe causato una Brexit senza nessun accordo, il Regno Unito e l’Unione europea hanno raggiunto la sospirata intesa che permette a entrambe le parti di portare avanti i rapporti commerciali, ma cosa significa la Brexit per l’Italia, e per gli italiani? Per l’opinione pubblica italiana la Brexit ha sempre avuto un significato più politico che economico. Esaurita l’attenzione per il referendum del 2016 i negoziati di questi anni sono stati più oggetto delle strumentalizzazione politiche interne che di analisi e riflessioni delle conseguenze.


La pandemia poi ha (giustamente) allontanato l’interesse generale da un negoziato complicato andato avanti per tutto il 2020, per poi riaccenderlo in queste ultime settimane caratterizzate dal pericolo della variante inglese e il conseguente caos alla frontiera di Dover, che forse è stato anche tra le cause delle concessioni di Boris Johnson.


Il commercio bilaterale è salvo. E per l’Italia è una buona notizia

Dal punto di vista commerciale, l’accordo mette al riparo gli scambi tra Regno Unito e i 27 Stati membri, e questa era la cosa più importante per evitare conseguenze immediate sull’economia. Nel 2019 il Regno Unito ha esportato il 43% dei propri beni verso l’Ue, ed era dunque più vulnerabile al no deal rispetto ai Paesi europei. In media, solo il 6,5% delle merci degli Stati membri vengono esportate sul mercato britannico, ma alcuni sono più esposti di altri. Roma, ad esempio, ha il terzo maggiore surplus commerciale europeo nei confronti di Londra, e il mercato britannico è il quinto importatore di beni italiani. 

Ciò nonostante, l’Italia non era uno dei Paesi più vulnerabili. L’anno scorso solo il 5% delle nostre esportazioni totali era diretto verso il Regno Unito. Roma quindi era meno preoccupata di un hard Brexit, ed è per questo che l’argomento non era un tema sensibile, se non per gli addetti ai lavori, che infatti festeggiano l’accordo. Tra i settori di punta del Made in Italy, i più esposti ai dazi del no deal sarebbero stati la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare. Da questo punto di vista, anche se alcune cose cambieranno, nel suo complesso la Brexit non porterà grandi complicazioni. 

Le conseguenze per gli italiani che sognavano Londra o i grandi atenei

Se il commercio è stato messo in salvo, non si può dire lo stesso della vita di chi per un motivo o per l’altro ha rapporti diretti – professionali o personali – con il Regno Unito, e di chi aveva in programma, o semplicemente il desiderio, di averne in futuro. Per i cittadini europei cambiano le regole per potersi trasferire o semplicemente recare al di là della Manica, in particolare per chi vuole farlo per periodi prolungati. 

Le nuove norme prevedono che anche i cittadini dell’Ue debbano fare una richiesta di visto valutata sulla base di un sistema a punti. Il meccanismo è molto rigoroso, quasi il 40% dei punti dipende dall’avere un’offerta di lavoro da un datore di lavoro britannico, e un altro 18% dal fatto che lo stipendio superi i 27.822 euro l’anno (25.600 sterline). Il tutto con un costo tra 1.300 e i 2.300 euro per domanda. Il modello imita il sistema australiano, e risponde al desiderio dei Brexiteers duri e puri che vogliono allontanare i lavoratori poco qualificati che partivano per l’Inghilterra senza un’offerta di lavoro già in tasca, e limitare i visti di ingresso per lavori temporanei. 

Da gennaio quindi, anche scegliere di andare a lavorare a Londra per imparare meglio l’inglese non sarà più facile come una volta. Per i cittadini già residenti avere il visto sarà più semplice (ma non assicurato), e in futuro le cose e potrebbero cambiare, ma per adesso  il nuovo stato delle cose obbligherà molte persone – in gran parte giovani – a rivedere i propri progetti di studio o di lavoro. Per gli studenti italiani accedere all’eccellente sistema universitario del Regno Unito diventerà molto più costoso, e quindi elitario.

Già, lo studio, una nota particolarmente dolorosa. Dopo l’annuncio dell’accordo, il capo negoziatore dell’Ue, Michel Barnier, ha dichiarato, senza nascondere il dispiacere, che il Regno Unito non intende più partecipare al programma Erasmus. Dal canto suo, Johnson ha detto che si tratta di una decisione economica data dal costo dell’Erasmus, e ha annunciato la volontà di costruire un programma di interscambio universitario per gli studenti britannici perché «vogliamo che abbiano la possibilità di formarsi nelle migliori università del mondo». Si chiamerà Turing Scheme, dal nome del noto matematico britannico Alan Turing. 

Secondo un rapporto della Camera dei Lord però, sarà molto difficile replicare gli stessi risultati con il programma nazionale che ha in mente Johnson. Nel 2017 il programma Erasmus ha portato ad attraversare la Manica 31.727 studenti europei e 16.561 studenti britannici. L’istruzione e la formazione professionale previste dall’Erasmus verranno a mancare, e a essere colpiti saranno soprattutto le persone provenienti da contesti sociali più svantaggiati. Anche oltremanica, a pagare saranno i più giovani.

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