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Molti obiettori e poche strutture: perché il via libera nel Lazio alla pillola abortiva Ru486 in ambulatorio rischia di non cambiare nulla

05 Febbraio 2021 - 07:14 Giulia Marchina
Nel 2018 su 274 ginecologi 200 si rifiutavano di praticare l'aborto. Il 58,2% degli anestesisti sono obiettori anch'essi. E a Roma le strutture ospedaliere che accolgono donne che vogliono abortire sono solo cinque

Dal 3 febbraio, in tutto il Lazio le donne non saranno più costrette a essere ricoverate in ospedale per l’aborto farmacologico, quindi per la somministrazione della Ru486. La pillola abortiva diventa così un farmaco da ambulatorio, garantendo alle donne la possibilità di scelta “tra regime di ricovero e regime ambulatoriale”, come stabilito dal ministero della Salute. In più si sposta il termine – fissato già il 13 agosto scorso – entro cui sottoporsi alla terapia: non più 7 settimane, ma 9, come da nuove linee guida del ministero della Salute. Il Lazio però è anche la regione del centro Italia con il tasso più alto di medici obiettori che si rifiutano di eseguire interruzioni di gravidanza. A ottobre 2020 si stimava che nel 2018 su 274 ginecologi, 200 fossero obiettori di coscienza. Nella Capitale, le strutture che accolgono donne che vogliono abortire sono solo 5. Una di queste è il San Camillo, polo ospedaliero tra i più importanti della Capitale: qui il reparto di Ivg – interruzione volontaria di gravidanza – è relegato in un sottoscala della palazzina di ostetricia e ginecologia. La strada, in realtà, è impervia e tutta in salita: il fatto che la Regione, seconda dopo la Toscana, si sia adeguata a direttive già applicate e metabolizzate dal resto d’Europa, non significa che le nuove regole saranno operative già domani.

Dai reparti Ivg di Roma: «Un passo avanti ma il cambiamento arriverà a fatica»

ANSA/Tonino Di Marco /DBA | Ru486

«Viviamo una situazione grave, in cui, pur essendoci una legislazione chiara – la Legge 194, ndr -, c’è chi la infrange appellandosi all’obiezione di coscienza», spiega Giovanna Scassellati, responsabile del reparto Day Hospital-Day Surgery 194 all’ospedale San Camillo di Roma. «Per quanto mi riguarda, chi finora si è rifiutato di accogliere le richieste di donne che chiedevano un aborto farmacologico, continuerà a farlo». E questo «sarà l’ostacolo più grosso quando avranno inizio i corsi di formazione e aggiornamento per medici e personale sanitario, così come per i consultori», dice. Perché? «Perché è chiaro che ad aderire alle nuove linee saranno solo i non obiettori». Per Scassellati, «questo provvedimento è un passo avanti ma non cambia di una virgola la realtà delle cose». Dello stesso avviso è Nicola Colacurci presidente dell’associazione ginecologi universitari italiani (Agui). Anche a lui si deve il documento poi approvato dal ministro della Salute Roberto Speranza sui nuovi parametri da rispettare in materia di aborto.

«Non è detto che questo cambierà la situazione», spiega. «Chi è obiettore rimane obiettore. Certamente però ora non ci sarà più il pretesto per le strutture preposte di negare una pratica simile». Può quindi essere considerato un passo avanti? «Dipende da cosa si intende per passo avanti ma soprattutto per benessere. Non posso giudicare se per una donna sia meglio sottoporsi a un intervento o passare 48 ore in casa nell’attesa di espellere il frutto del concepimento. In quanto medici, però, abbiamo il dovere di fornire tutti gli strumenti necessari. A questo non dovremmo sottrarci».

Gli obiettori di coscienza

«Mi preoccupa che una donna sia lasciata sola davanti a questa decisione e che non ci sia alcun supporto sociale», prova a spiegare Antonio Lanzone, medico e professore ordinario all’Università Cattolica di Roma. «Questa solitudine genera spesso e volentieri processi di ansia e disagio. Quando mi si dice che si può abortire con una pillola alla nona settimana, allora ho forti perplessità, perché i dati non sono favorevoli». Secondo quanto riportato dal medico, l’efficacia sarebbe inferiore e le complicanze superiori a quello che avviene in una classica interruzione di gravidanza. «La mia posizione è nota: non sono favorevole all’aborto, quindi non prescriverei mai la pillola abortiva a una paziente».

I dubbi

Per Lanzone non si può parlare di svolta. E la questione, però, non ha a che fare con interrogativi etici, ma con la matematica. «Se cominciamo a prescrivere Ru486 così, liberamente, banalizziamo la metodica. Si sfugge al controllo sociale del fenomeno. Detto meglio: come posso sapere quante interruzioni farmacologiche si fanno in Italia basandomi solo sulla vendita “al banco” di confezioni del farmaco? Chi me lo dice che, una volta acquistato, che quella donna non torni a casa e cambi improvvisamente idea?». La domanda è lecita, se pensiamo che quello dell’aborto è uno dei fenomeni più monitorati nell’ambiente medico. Quasi ogni anno, infatti, vengono stilati report che ne tracciano andamento e scenari futuri.

Lazio e aborto: a che punto siamo

Come scrive il ministero della Salute in un report pubblicato nel 2020, nel 2018 le interruzioni volontarie di gravidanza – chirurgiche e farmacologiche – nel Lazio sono state complessivamente 8.287. Tutte entro il terzo mese di gestazione ed effettuate in 21 delle 41 strutture ospedaliere. Il ginecologo non era per forza un interno all’ospedale. Il 58,2% degli anestesisti, quindi 158 su 272, sono obiettori. Tra i 558 infermieri ed operatori sanitari, più della metà si rifiuta di collaborare durante una pratica abortiva.

Immagine in copertina: Reproductive Health Supplies Coalition

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