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Euro 2020, da «Dollarumma» a miglior giocatore, la parabola del portiere azzurro che ricorda Paolo Rossi

12 Luglio 2021 - 16:19 Felice Florio
Gianluigi Donnarumma
Gianluigi Donnarumma
Vicende, distanti di 40 anni, sembrano sovrapporsi tra la favola di "Pablito" Rossi e quella del portiere stabiese

Se non fosse stato per quel tendine d’Achille, forse il titolo di miglior giocatore di Euro 2020 l’avrebbe sollevato Leonardo Spinazzola. Forse, perché dopo i rigori parati in semifinale contro la Spagna e in finale contro l’Inghilterra, uno dei ruoli più spesso dimenticati nell’assegnazione dei premi individuali, quello del portiere, ha rivelato la sua essenzialità per la vittoria dell’Italia nel campionato europeo. Non il piede, ma la mano, non la scarpetta, ma il guantone: Gianluigi Donnarumma, a soli 22 anni, entra nella storia della Nazionale azzurra. Prima dell’esaltazione, però, c’è stato un tempo in cui le critiche arrivavano da ogni direzione. Chi lo riteneva troppo acerbo per questo palcoscenico, chi lo considerava spettacolare ma poco solido, chi lo aveva amato al Milan, e dopo cinque anni di relazione, si è sentito tradito per la scelta di cambiare squadra. E allora giù di polemiche sui social, dal talento agli aspetti personali, tutto è opinabile, tutto è da ridiscutere. È uno dei più grandi difetti dei tifosi di calcio: un attimo prima, finché il giocatore veste la maglietta della squadra che guardi ogni domenica, quel giocatore è un eroe, un fenomeno, un crack. Poi, se quel giocatore si trasferisce altrove per fare altre esperienze o anche – ed è lecito – per guadagnare di più, allora quel giocatore diventa un mostro da biasimare, fischiare, distruggere con i buu allo stadio e con l’odio sui social. L’unica colpa di Donnarumma, milanista fino al midollo, è stata il suo talento: corteggiato, desiderato all’estero per le sue qualità e, conseguentemente, strapagato per questo, ha vissuto quando ancora era minorenne l’onta di essere soprannominato Dollarumma.

La parabola di Paolo Rossi

Il suo Europeo non può non rievocare la parabola di Paolo Rossi nel 1982. All’epoca era già un idolo del calcio italiano, osannato in tutta la Penisola. Due anni prima del Mondiale di Spagna, scoppia lo scandalo del calcioscommesse. All’apice della sua ascesa, Rossi riceve una squalifica di due anni. In molti davano per finita la sua carriera. Nel 1981, Boniperti – mancava ancora un anno alla fine della squalifica – lo vuole alla Juventus. Gioca una buona stagione nel 1982 con i bianconeri e Bearzot lo convoca in Nazionale. Le prime partite sono un disastro: Rossi non segna, l’Italia inizia il torneo con tre pareggi contro le più modeste Polonia, Perù e Camerun. Si qualifica solo grazie alla differenza reti. Tutta la Nazione vuole Rossi sulla forca, riecheggiano i miasmi della delusione per lo scandalo scommesse. Nella seconda fase, però, Rossi si trasforma in Pablito. Tripletta al Brasile che vale il primo posto nel Gruppo C, doppietta contro la Polonia, di nuovo, in semifinale, e il gol che sblocca la finale contro la Germania Ovest. Con sei gol nella competizione, Rossi vince la scarpa d’oro del Mondiale. Quello stesso anno, riceve il Pallone d’oro, il massimo trofeo individuale nel mondo del calcio.

Donnarumma, quasi 40 anni più tardi, inizia così il suo Europeo: tra le polemiche, la scure del giudizio perpetuo di fan e detrattori: i primi delusi dalle sue scelte personali, i secondi che non amano la sua esuberanza tra i pali e rimpiangono Buffon. Ingranano le partite e i fantasmi si diradano. L’Italia vince e, soprattutto, non perde da 32 partite. Arriva la semifinale contro la Spagna, 120 minuti di gioco non bastano e si va ai rigori. Donnarumma è stato già decisivo, ma solo adesso gli italiani iniziano a realizzarlo davvero, con lo svizzero Zuber, l’austriaco Schaub, il belga De Bruyne e lo spagnolo Dani Olmo nei tempi regolamentari. Ora, però, bisogna guardare a 11 metri di distanza, tutto ciò che è stato calciato o parato prima può essere vanificato dai calci di rigore. Slancio sul lato destro di Alvaro Morata, così in anticipo rispetto all’attaccante della Juventus da parare il suo tiro dal dischetto con l’avambraccio sinistro. Donnarumma porta i suoi compagni in finale.

I nervi fermi e la calma

L’Italia arriva all’ultimo step di un torneo in cui, alla vigilia, non era certo annoverata tra le favorite. Si torna a Wembley, l’11 luglio, e anche nella finale contro l’Inghilterra non bastano i tempi regolamentari, tantomeno i supplementari, a decretare la vincitrice degli Europei. Jorginho ha appena fallito il rigore che avrebbe consegnato la coppa agli Azzurri, non ripete la destrezza con cui ha spiazzato Unai Simón in semifinale. È il turno di Donnarumma, o la para o si va ad oltranza. Calcia Bukayo Saka, 19 anni. In confronto, per la serenità, la calma con cui sistema i piedi sulla linea di porta, Donnarumma sembra un veterano di questo sport. Si lancia. Ancora lì, alla destra del tiratore. Questa volta è il palmo aperto, pieno, a respingere il penalty. Non esulta. L’Italia vince gli Europei dopo 53 anni. Donnarumma è vittima dello stesso incantesimo con cui ha stregato prima Jadon Sancho e poi Saka. Esce dallo stato di trance quando tutti i suoi compagni corrono verso la porta che lui ha difeso sia in semifinale che in finale, sotto l’arco del tempio di Wembley. «Siamo stati straordinari, non abbiamo mollato di un centimetro… quel famoso centimetro di cui parlava sempre il mister. Siamo partiti da dove siamo partiti e siamo arrivati qui: è una cosa straordinaria – dice nell’intervista post-partita -. Quel gol preso all’inizio poteva ammazzarci, ma noi siamo quelli che non mollano mai. Non era facile, ma siamo stati spettacolari, grandiosi e ci meritiamo tutto questo. Non raccolgo l’eredita di Buffon perché Gigione sarà sempre il numero uno. Io? Vedremo dove arriverò».

I numeri di un fenomeno

Le statistiche, nel calcio, contano il giusto: ogni partita può essere decisa da un singolo episodio: ricordate come è finita Francia-Svizzera in questo Europeo? Con i numeri non si può prevedere ciò che sarà, tuttavia si può analizzare ciò che è stato, la storia. Donnarumma è stato il portiere che, dall’inizio della sua carriera ad oggi, ha parato 17 rigori su 77, il 22%. Una percentuale elevatissima per chi sa quanto possono essere corti 11 metri se tu sei solo un uomo, con una curva che fischia e rumoreggia alle tue spalle, e devi cercare di coprire uno spazio di 7,32 metri, da un palo all’altro. Anche il presidente della Repubblica prega per lui, a Wembley, prima che la roulette dei rigori iniziasse a girare. «Siamo nelle mani, no nelle manone di Donnarumma», sospira Sergio Mattarella. La roulette inizia a girare, sembra che la pallina si fermerà sul nero dopo gli errori di Belotti e Jorginho. Invece, per l’ennesima volta da quella finale di Supercoppa Italiana del 2016, la prima in cui l’ei fu milanista – allora 16enne -, ai rigori, decise un match, la pallina si ferma sul numero 21. Il numero stampato sulle spalle del ragazzo di Castellamare di Stabia, cresciuto con i poster di Nelson Dida e Gianluigi Buffon in cameretta.

Il 22enne si consacra degno erede del portierone che rese azzurro, nel 2006, il cielo di Berlino. Buffon a fine carriera per inseguire una Champions League che non arriverà mai, Donnarumma adesso, per provarci prima che sia troppo tardi: entrambi hanno portato i loro talenti alla corte del Paris Saint-Germain. Lo juventino, dopo una breve esperienza in Francia, fece ritorno a casa sua, a Torino, per concludere la carriera nella squadra che l’ha reso e ha reso leggenda. Per l’ex milanista è precoce ipotizzare un ritorno da questo lato delle Alpi, ma in una poetica serie di coincidenze con il suo idolo e omonimo, chissà che un giorno possa tornare a difendere i pali della Serie A. Certamente, lo rivedremo tra poco più di un anno, in Azzurro, ai Mondiali del Qatar. E con notti magiche come quelle dell’ultimo Europeo, ogni critica sarà deviata fuori, alla sinistra del suo palo.

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