Seid Visin, il padre ci ripensa: «Sì, è morto anche per il razzismo»

Walter Visin: «In quei giorni eravamo scioccati, confusi. Mia moglie lo ha trovato in quelle condizioni… una cosa devastante. Abbiamo alzato dei muri per difenderci dal dolore e per respingere un assalto mediatico che non ci aspettavamo»

Seid Visin, 20 anni, si è tolto la vita il 3 giugno scorso a Nocera Inferiore. Il ragazzo, nato in Etiopia e adottato da piccolo, si era trasferito a Milano da giovanissimo per giocare nelle giovanili del Milan e poi nel Benevento. Dopo la sua morte l’associazione Mamme per la Pelle aveva diffuso su Facebook una lettera scritta dal ragazzo a gennaio 2019 in cui Seid raccontava di aver subito episodi di razzismo sin da piccolo: «Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone». Ma il padre Walter aveva smentito che con la sua morte c’entrasse il razzismo: «Era un ragazzo tormentato e con molti problemi. Quella lettera era uno sfogo superato».


Oggi il padre in un colloquio con il Corriere della Sera dice di averci ripensato e di aver capito che suo figlio è morto anche per il razzismo di cui era stato vittima: «In quei giorni eravamo scioccati, confusi. Mia moglie lo ha trovato in quelle condizioni… una cosa devastante. Abbiamo alzato dei muri per difenderci dal dolore e per respingere un assalto mediatico che non ci aspettavamo. Non era tempo per ragionare su quello che ci era caduto addosso. Ora invece lo sappiamo: sì, il razzismo ha contato nella vita e nella morte di nostro figlio. Seid era un ragazzo che aveva dei cassetti segreti chiusi nella sua mente, c’erano dentro dispiaceri e abusi subiti in Etiopia da piccolo, contenevano tutte le sue fragilità. Questo ha certamente contato nella sua decisione di togliersi la vita. Ma in quella decisione c’è anche il razzismo che ha vissuto come ragazzo nero qui in Italia».


Walter e la moglie Gabriella Nobile hanno contattato l’associazione e hanno deciso di coltivare la causa antirazzista del figlio in sua memoria. E il padre ricorda oggi il sorriso amaro di Seid mentre qualcuno faceva battute tipo «adesso facciamo giocare questo sporco negro». «Erano frasi dette per scherzo», sostiene lui, «da persone che gli volevano anche bene. Io gli dicevo sempre di non badarci, che erano solo battute, che doveva farsele scivolare addosso come l’olio… Ora so che ogni parola può aprire una ferita. Che erano ferite anche le parole di qualche nostro parente disoccupato che diceva “vengono qui e ci rubano il lavoro”. Anch’io ho sbagliato a sdrammatizzare».

Walter dice che lui e sua moglie sono arrivati alla conclusione che Seid nascondeva a loro la sua sofferenza per il razzismo allo scopo di proteggerli: «Quand’era a Milano qualcuno aveva urlato “togliete quel nero di m…. dal campo”. A Nocera era più protetto, ci conoscono tutti. Eppure sono successe piccole cose anche qui, cose che ora vedo in una luce diversa perché le guardo con i suoi occhi. Una volta aveva provato a lavorare in un bar. Era tornato a casa e ha detto: “Mamma non voglio più andarci, perché un vecchio non ha voluto essere servito da me”. Quell’uomo era un analfabeta ignorante ma lui l’aveva vissuta male lo stesso. E poi quando mia moglie lo accompagnava in stazione a volte vedeva da lontano che la Polfer si avvicinava subito per controlli. Lei lo chiamava: “Seid, amore, allora vengo a prenderti io al ritorno”. E i poliziotti capivano e si allontanavano».

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