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Il piano del nonno per rapire Eitan Biran: «Arrabbiati perché non iscritto a una scuola ebraica»

13 Settembre 2021 - 05:15 Alessandro D’Amato
eitan biran rapito nonno israele
eitan biran rapito nonno israele
Shmuel Peleg, ex dipendente di una compagnia aerea ed ex militare, ha portato Eitan Biran a Lugano e da lì è partito per Tel Aviv. Un contrasto tra le due famiglie sull'educazione del piccolo alla base

Sabato mattina Eitan Biran ha viaggiato in automobile fino alla Svizzera. A Lugano il nonno Shmuel Peleg, ex dipendente della compagnia aerea israeliana Elal, ex militare, forse collaboratore dei servizi segreti, già condannato per maltrattamenti nei confronti della ex moglie, lo ha fatto salire su un aereo privato. Che è atterrato nel pomeriggio a Tel Aviv, dove oggi il bambino è in cura all’ospedale Sheba. Alle 18,30 Peleg ha inviato un sms ad Aya Biran, la zia che lo aveva in custodia a Travacò Saccomario in provincia di Pavia: «Il bambino è tornato a casa». Nonostante un decreto del giudice tutelare di Pavia che vietava l’espatrio. Così è cominciata la storia di un’accusa di sequestro di persona nei confronti del bambino unico sopravvissuto della strage della funivia Stresa-Mottarone. Ma per capire perché il padre di Tal Peleg ha deciso di rapire il nipote bisogna fare un passo indietro.

E ripercorrere la storia che è cominciata il 23 maggio 2021, quando muoiono Tal e Amit Biran, genitori del bambino. La Stampa racconta oggi che a Ramat Aviv, sobborgo residenziale al nord di Tel Aviv, vive Etty Peleg (57 anni), la nonna materna di Eitan. Lei ha perso anche il padre Itzhak (detto Izzy) nell’incidente della funivia e la madre. A Ramat Aviv vivono anche le sorelle Gali (29 anni) e Aviv (22) e il fratello Guy (32). I tre, oltre a Tal, sono figli di Etty e Shmuel Peleg (58), nati prima del loro divorzio. Proprio i tre figli l’11 agosto scorso hanno convocato la conferenza stampa in Israele sollevando accuse contro Aya Biran. Quelle ribadite ieri da Gali nell’intervento alla radio israeliana 103: «Dall’Italia non avevamo più notizie di lui, abbiamo agito per il suo bene; adesso merita una vita normale fatta di amici, sport e famiglia». E ancora: «Siamo stati obbligati ad agire così, non avevamo notizie sulle sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui». Infine: «Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto “finalmente sono in Israele”».

Già, i genitori. Perché la famiglia Peleg, con la nonna Etty in prima fila, è convinta che Amit e Tal stessero programmando di ritornare a vivere in Israele. Al quotidiano Israel Hayom ha raccontato che avevano perfino comprato un appartamento a Ramat Hasharon, un elegante centro residenziale a pochi chilometri da Ramat Aviv. Per questo adesso dicono che Eitan è «tornato a casa». Perché sono convinti di stare rispettando la volontà dei genitori del bambino riportandolo in Israele. Costi quel che costi. Poi c’è una questione identitaria, culturale e religiosa. «Tal e Amit si rivolgevano a Eitan e a Tom in ebraico e parlavano di ebraismo e di Israele», ha raccontato la nonna durante l’intervista dell’epoca. Invece, racconta ancora La Stampa, in una delle sue visite ad Aya, alla nonna del bambino è balzata all’occhio l’assenza della mezuzah sulla porta e di altri simboli ebraici in casa.

Infine è arrivata la notizia dell’iscrizione del nipote a una scuola religiosa cattolica. Che ha ulteriormente infastidito la famiglia lontana. «Questa non è l’eredità che Amit e Tal volevano trasmettergli», sostengono. E, racconta il Corriere della Sera, dietro c’erano anche differenze politiche: «Mia figlia Tal soffriva per i rapporti con la famiglia di Amit, si sentiva sottovalutata. Non so per quale ragione ci disprezzino, forse perché noi siamo sefarditi». Gli ashkenaziti guarderebbero con la loro «alterigia europea» gli immigrati dai Paesi arabi, importatori di altri modi e abitudini: «Non ho mai nascosto le mie idee di destra», proclama Etty sottintendendo che i Biran stanno dall’altra parte.

Il giallo del divieto di espatrio

Ora c’è un bambino in Israele e un’inchiesta per sequestro di persona in Italia. Il Tribunale di Pavia, che nei mesi scorsi aveva confermato la nomina della zia paterna Aya Biran come tutrice legale di Eitan, il bimbo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone e ieri portato in Israele dal nonno materno, aveva stabilito anche, con un provvedimento dell’11 agosto scorso, che il piccolo non poteva espatriare se non “accompagnato dalla tutrice” o con l’autorizzazione della stessa. Un divieto di espatrio che valeva sia nel caso fosse stato presentato per lui un passaporto italiano che per quello israeliano. E questo ordine del giudice, violato dalla famiglia materna del bambino, come ha chiarito l’avvocato Cristina Pagni, che assiste sul fronte civile Aya Biran, su decisione dello stesso Tribunale era stato inoltrato alla Questura e alla Prefettura di Pavia per essere inserito – come si legge nel provvedimento – nelle banche dati delle forze dell’ordine preposte ai controlli in uscita dal territorio italiano.

A inizio agosto, poi, lo stesso giudice aveva disposto la “restituzione” del passaporto israeliano del bimbo da parte della famiglia materna che avrebbe dovuto consegnarlo alla tutrice entro il 30 agosto. Cosa non avvenuta. «Il passaporto era in mano a Shmuel Peleg – ha detto il legale – per ragioni poco chiare». L’avvocato Pagni ha spiegato che di ciò che è accaduto ieri è stata informata anche la Procura dei minori di Milano. E ha annunciato che oggi i legali incontreranno il giudice tutelare a Pavia per attivare la Convenzione internazionale dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori. Sempre per domani è previsto un vertice in Procura a Pavia tra investigatori e pm e gli inquirenti potrebbero incontrare anche i legali della zia paterna, tra cui anche l’avvocato Armando Simbari.

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