Afghanistan, sparito il neonato dato in braccio agli americani oltre il filo spinato dell’aeroporto. La famiglia: «Nessuno fa nulla»

Mamma, papà e gli altri 4 figli sono in Texas in attesa di essere ricollocati da qualche parte negli States. Il bambino è scomparso dopo essere stato recuperato dai militari

Non c’è lieto fine, nella storia di Sohail. 2 mesi, tutta la vita davanti, e per preservarla la decisione dei suoi genitori: quella di porgerlo disperatamente verso l’alto, un fagottino tra mani alzate, armi e mimetiche di soldati, oltre il filo spinato e verso le braccia di un militare americano. Verso la salvezza, all’aeroporto di Kabul il 19 agosto scorso. Una foto diventata iconica in quei giorni drammatici di metà estate. Uno scatto che metteva l’Occidente davanti alle sue immense responsabilità I suoi genitori, Suraya, 32 anni, e Mirza Ali Ahmadi, hanno provato così a salvarlo dalla calca mortale. Lo avrebbero recuperato, questa la speranza, una volta entrati anche loro nell’aeroporto e raggiunta la salvezza.


La storia di Sohail

Non è andata così. Kabul è caduta, mamma Suraya, papà Mirza e gli altri figli di 17, 9, 6 e 3 anni sono riusciti a scappare dal nuovo regime talebano tornato a rinchiudere le donne in casa e a perseguitare chi ha eccessive simpatie occidentali o democratiche nel vuoto lasciato da 20 anni di fallimento americano. Quei giorni all’Hamid Karzai Airport hanno segnato le loro vite, l’evacuazione prima dell’attentato che ha interrotto una fuga che comunque avrebbe trovato un muro, perché i corridoi occidentali si sono esauriti troppo presto. I bambini che passano sopra al filo spinato sono tanti. Alcuni vengono addirittura lanciati. Pensare a cosa abbia voluto dire, arrivare a farlo, fa rabbrividire. Sohail passa, il resto della famiglia entra dopo un po’ perché nei frattempo i talebani avevano cominciato a respingere la folla. Ma ce la fanno Dentro, però, del loro bambino non c’è più traccia.


«Ho cercato ovunque per tre giorni, ma non c’era nemmeno nell’area riservata ai bambini. Ho chiesto a più di venti persone, ma non parlo inglese e quindi non sono riuscito a sapere nemmeno chi fosse il comandante», dice a Reuters il papà, in fuga perché aveva lavorato per un decennio come uomo della sicurezza all’ambasciata Usa in Afghanistan. Non sanno chi era il militare che lo ha preso. Non sanno nulla. Il bambino sembra inghiottito dalle tenebre. Il resto della famiglia viene poi imbarcata, si legge sul Corriere della Sera, su un volo per Doha. Poi arriva in Germania e da lì, ancora, a Fort Bliss in Texas. Si trovano ora insieme ad altri rifugiati afghani e aspettano il reinsediamento da qualche parte negli Stati Uniti. Ma del loro figlio più piccolo non c’è traccia. «Gli operatori umanitari e i funzionari Usa mi dicono che faranno del loro meglio per ritrovarlo, ma sono solo promesse», conclude il papà.

In copertina Twitter | Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya all’aeroporto di Kabul il 19 agosto per lasciare il Paese, davanti ai cancelli dell’Abby Gate, affidano il loro piccolo di due mesi a un militare Usa nel timore che rimanesse schiacciato

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