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Le fake news che viziano il dibattito sul salario minimo

Salario minimo
Salario minimo
Gli allarmi sulla diffusione dei contratti collettivi pirata e dei salari da fame sono smentiti dai dati; il problema dei precari e dei working poors viene, invece, dimenticato

La prossima approvazione di una Direttiva europea sul salario minimo legale ha acceso un dibattito molto complesso, nel quale si intrecciano impegnative dichiarazioni politiche (si penso all’entusiasmo con cui alcuni nostri leader hanno annunciato la svolta per la tutela dei diritti dei lavoratori) e complessi problemi tecnici. È giusto che si discuta di come attuare una Direttiva comunitaria – seppure il nostro Paese non rientra nel perimetro dei destinatari della stesso – ma per farlo bisogna smontare alcuni luoghi comuni di grande successo che non rispondono alla realtà ma viziano l’intero dibattito (come ha messo in evidenza Renato Brunetta oggi sul Corriere della Sera, citando i dati pubblicati da ADAPT, uno dei più rigorosi istituti di ricerca sul lavoro e le relazioni industriali del nostro Paese). Proviamo ad elencare, prendendo a prestito queste ricerche, quali sono le principali “fake news” sul salario minimo.

Non è vero che la Direttiva UE impone all’Italia l’adozione del salario minimo

Nonostante il testo della Direttiva sia molto chiaro, una larga fetta della nostra classe politica ha finto di non capire un concetto importante: l’accordo in sede Ue sulla direttiva sui salari minimi non è rivolto all’Italia, ma serve a tutelare i lavoratori di quei Paesi in cui la contrattazione collettiva copre meno dell’80% della popolazione lavorativa. In Italia questa soglia è superata ampiamente, come vedremo meglio dopo, e quindi non solo la Direttiva non ha alcun impatto, ma addirittura il nostro sistema può essere usato come modello virtuoso per gli altri Paesi OCSE (dove nel 2017 appena il 32% dei lavoratori risultava coperto da un accordo collettivo).

Non è vero che dilagano i “contratti pirata”

Il fenomeno dei “contratti collettivi pirata” è preoccupante: accordi firmati da associazioni sindacali inesistenti, o scarsamente rappresentative, che riducono le soglie minime retributive fissate dai contratti collettivi confederali. Questo fenomeno va assolutamente contrastato ma, al contrario di quanto si dice, non c’è una proliferazione indiscriminata di accordi di questo tipo: come dimostrano le analisi di ADAPT, nell’archivio CNEL c’è una maggioranza di accordi collettivi “sospetti” (su 1.000 contratti depositati, sono solo 419 i contratti collettivi nazionali effettivamente utilizzati e appena 162 quelli sottoscritti dalle organizzazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil) ma è una diffusione che ha un impatto meno limitato di quanto si pensi. I contratti confederali, infatti, pur essendo numericamente in minoranza coprono più di 12 di milioni di lavoratori dipendenti, un numero pari al 97% del totale dei 12,9 milioni di rapporti di lavoro dichiarati nelle comunicazioni Uniemens all’Inps. Insomma, i contratti pirata esistono, sono un problema di risolvere, ma oggi si applicano al 3% dei lavoratori dipendenti.

Non è vero che dilagano salari da 4-5 euro l’ora

La politica ama giustificare la necessità del salario minimo contro l’ingiusta e vergognosa diffusione delle “paghe da fame” di 3, 4 o 5 euro l’ora. Anche questa affermazione è largamente imprecisa: come dimostrano, anche qui, le ricerche di ADAPT, tutti i contratti collettivi siglati dalle organizzazioni aderenti a CGIL, CISL e UIL sono di gran lunga sopra questo valore (raramente si va sotto i 9 euro, molto spesso si superano i 10 o 11 euro, l’unica eccezione è il lavoro domestico). Quindi, qualsiasi intervento sul salario minimo che ponesse l’asticella, come si sente dire da più parti, tra i 7 e 9 euro sarebbe inutile (fisserebbe un valore più basso di quelli esistenti) e in prospettiva dannoso (andrebbe a incentivare le imprese ad appiattirsi sul minimo legale).

Non è vero che il salario minimo aiuterebbe i precari e i lavoratori in nero

Il problema dei working poors si annida principalmente nelle aree del lavoro nero o irregolare: i falsi part time, gli appalti illeciti combinati ai contratti pirata, le collaborazioni che mascherano la dipendenza, le false partite iva.  Un mondo che resterebbe completamente tagliato fuori da una legge sul salario minimo (nessuna delle proposte che giacciono in Parlamento risolve il tema) e che, invece, ha bisogno più di tutti di interventi strutturali per risolvere il tema delle “paghe da fame”: promettere loro che con la Direttiva UE cambierà qualcosa significa vendere fumo negli occhi. Bisognerebbe fare una battaglia diversa: applicare le regole, intensificare i controlli, rafforzare i meccanismi di contrasto all’uso irregolare dei contratti.

Non è vero che mancano regole per il salario minimo

Nel nostro Paese i datori di lavoro non sono liberi di applicare la paga che vogliono: possono scegliere di non applicare alcun contratto collettivo, ma sono vincolati – sulla base di un meccanismo creato dalla giurisprudenza – ad applicare le tabelle retributive fissate da un contratto collettivo esistente e rappresentativo. Questo succede da decenni, come sa chiunque si occupa di gestire questioni salariali. Chi dice il contrario mente, oppure non conosce le regole di base del nostro sistema.

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