Giovani e criminalità, parla Don Burgio, il prete dei rapper e “gangsta” milanesi: «Capisco la loro rabbia»

Cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria”, don Claudio Burgio è il fondatore della comunità Kayrós di cui hanno fatto parte anche tanti volti della nuova scena rap milanese: da Rondo e Sacky fino a Baby Gang e Simba La Rue

Dalla maxi rissa a Peschiera del Garda all‘arresto di 24 ragazzi, tra cui cinque minori, coinvolti in uno scontro che ha causato la morte del 21enne Simone Dimitry Stucchi, sono tanti i casi di cronaca che coinvolgono giovani e giovanissimi. Sono solo episodi sparsi o un segnale di disagio crescente della condizione giovanile? Lo abbiamo chiesto a Don Claudio Burgio, autore di Non esistono ragazzi cattivi, cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano e fondatore dell’associazione Kayrós a Vimodrone, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti nella provincia milanese, di cui hanno fatto parte negli ultimi anni anche tanti dei volti della nuova scena rap milanese, da Rondodasosa e Sacky fino a Baby Gang e Simba La Rue.


Proprio ieri, 14 giugno, il Tribunale dei minori di Milano ha disposto la custodia cautelare in carcere per due ragazzi minorenni coinvolti nell’omicidio di Simone Dimitry Stucchi. Perché è stata presa una decisione così forte nei confronti di due minori?


«Si vede che non si è potuto fare altrimenti. Se si è deciso per una custodia cautelare in carcere, che come per la giustizia ordinaria è disposta in caso di rischio di inquinamento delle prove, di fuga o soprattutto di reiterazione del reato, significa che sono state ravvisati gli estremi di una situazione molto grave, che può dipendere anche da un contesto familiare assente o in difficoltà. In ogni caso, la prassi nella maggior parte dei casi prevede una permanenza breve, nell’ordine di qualche mese, all’interno degli Istituti penale per minori, poi si passa in comunità o si rientra a casa. Quello che è certo è che la mentalità della magistratura minorile tende a evitare il più possibile di ricorrere al carcere, soprattutto come prima opzione. È davvero l’extrema ratio».

Perché?

«Il carcere minorile è un’esperienza estremamente traumatica. Vivere una vera e propria carcerazione in fase adolescenziale non è facile da metabolizzare, soprattutto nella sua componente stigmatizzante, quando sono ancora in corso i processi identitari della persona. Per molti ragazzi il carcere minorile ha un effetto controproducente, perché non fa che amplificare le dinamiche di esibizione di forza e potere che già comandano al di fuori. Quindi se molti soccombono subito perché non hanno le risorse per «farsi rispettare», gli altri si affermano in maniera definitiva, ricevono dal carcere una sorta di legittimazione della loro immagine. Anche quando poi escono, il carcere diventa fonte di consistenza, di visibilità. È un ambiente dove si vive d’immagine e competizione, dove il problema del bullismo, delle lotte tribali, dell’affermazione di potere è ancora più evidente che nelle carceri per adulti».

Ansa | Don Claudio Burgio

Dinamiche che avrà riscontrato più volte all’interno dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano, di cui è cappellano. Qual è la situazione attuale?

«In questo momento la situazione al Beccaria è ancora più complicata, perché soffriamo un momento di sovraffollamento dovuto all’inagibilità di metà dell’edificio, in fase di ristrutturazione. Quindi molti ragazzi lombardi vengono collocati altrove, anche in Sicilia, e questo acuisce ancora di più la loro sofferenza, perché sono lontani dalle famiglie. Direi anche che non è una scelta costituzionale: è fondamentale che la famiglia sia presente nel recupero del minore e non tutte le famiglie, ad esempio, si possono permettere di sostenere un viaggio così lungo per fare visita al proprio figlio in carcere».

Con la sua associazione Kayrós, che gestisce diverse comunità di accoglienza per minori a Milano, di ragazzi difficili ne ha incontrati e aiutati tanti. Negli ultimi mesi sono aumentati i reati compiuti da minori: perché?

«I reati sono espressione di una rabbia generazionale che sta emergendo in tutta la sua evidenza. Da una parte, c’è una sorta di ricerca di adrenalina che non riescono a trovare in altre situazioni, dall’altra c’è una mancanza di senso di fondo su cui mi interrogo spesso. Questi ragazzi vogliono produrre un’immagine di sé grandiosa, vogliono avere i soldi, il potere, essere visti. Ma io percepisco in questo un vuoto terribile: non sanno perché esistono, non sanno dare un significato alla loro vita e ai loro sentimenti. Sono analfabeti dal punto di vista emotivo, perché nessuno li ha mai educati all’empatia, non sono mai stati accompagnati nel vivere il dolore, il loro e quello degli altri. E non mi riferisco solo ai ragazzi di periferia o di seconda generazione, ma anche ai ragazzi di buona famiglia. Certo, per chi viene da certe realtà più povere e difficili è tutto più accentuato, perché si sentono ancor più inadeguati rispetto alla società del profitto in cui viviamo».

Un sentimento che lo Stato e le istituzioni non sembrano gestire al meglio…Cosa dovrebbe cambiare nell’approccio a questa “emergenza”?

«Bisogna fare i conti per davvero con questo disagio. C’è una profonda mancanza da parte della società e dello Stato, che non fa che rispondere con misure di sicurezza più stringenti, con la repressione e la coercizione. Ma non è la via giusta, o almeno non è l’unica: questi ragazzi non riconoscono più l’esercizio di potere e di disciplina come espressione di autorità, anzi è il miglior modo per diventare il loro nemico numero uno. L’unica forma di autorità che accettano è di chi è testimone: quando hanno di fronte un adulto capace di ascoltarli e capirli senza giudicarli, allora questo viene rispettato, guadagna autorevolezza ai loro occhi. Per questo bisognerebbe puntare molto di più sugli interventi di tipo educativo, investire sulle figure pedagogiche. A oggi c’è una carenza di educatori impressionante: sono tantissimi i giovani che studiano materie pedagogiche, ma al termine degli studi prediligono altri ambiti, perché lo Stato non stanzia i fondi necessari per svolgere correttamente e dignitosamente questo lavoro».

Tra i suoi ragazzi ci sono tanti dei nuovi volti della scena rap milanese: Rondo, Sacky, Simba, Baby Gang…Cosa pensa della loro crescita e delle critiche che ricevono: sono davvero un cattivo esempio per i più giovani? Simba tra l’altro è stato recentemente protagonista di un violento scontro con un altro rapper di Padova…

«Loro sono considerati “quelli che ce l’hanno fatta”, ma bisogna tenere a mente che due, tre anni di comunità non risolvono tutto magicamente. Non va dimenticato che questi ragazzi hanno avuto un’infanzia per noi inimmaginabile, a stretto contatto con dolore, rabbia, violenza, armi, droga. Io non voglio giustificarli quando compiono azioni violente o illegali, ma cerco di comprendere da dove vengono e di allearmi con la loro parte buona, che c’è. Hanno diversi volti, tutti purtroppo veri, ma vivendo con loro ho avuto l’occasione di assistere ad aspetti ed episodi molto belli, di grande generosità. Il problema è che questa parte buona la lasciano emergere solo nel privato, perché in questo momento sentono l’esigenza di esibire un’immagine più a stretto contatto con le loro canzoni. Che comunque non è costruita: è parte di loro, legata alla loro storia.

È difficile giudicare dall’esterno perché Momo (il vero nome di Simba La Rue è Mohamed, ndr) abbia deciso di comportarsi in questo modo. È una vicenda che chiaramente mi dispiace e non posso giustificare. Ero a conoscenza di dissapori molto forti con Touché e so che lui non è un ragazzo che riesce a superare facilmente le provocazioni. Il Momo di oggi non è quello di ieri, ma rimane un ragazzo che ha respirato tanta violenza quando era bambino ed è naturale che ogni tanto questa vecchia narrazione, queste vecchie modalità riemergano. Chiaramente non è una cosa che lo favorisce, deve affrontare questa rabbia».

E Baby Gang? Anche lui ultimamente ha avuto parecchi problemi con la giustizia…

«Zaccaria (nome all’anagrafe di Baby Gang, ndr) è stato allontanato dalla sua famiglia quando aveva 8 anni. Dopo aver cambiato 10 famiglie affidatarie è arrivato al Beccaria, a 15 anni. Io non posso dargli torto quando mi dice: “Perché invece di farmi girare per 10 famiglie lo Stato non ha aiutato la mia famiglia? Non era più logico?”. Ecco, lui ha il suo seguito perché non sempre dice e fa le cose sbagliate. Anche questa continua lotta con le forze dell’ordine – che lui chiama “gioco triste” – la interpreta come un accanimento dello Stato nei suoi confronti. Il suo ragionamento è: “Prima facevo reati per campare e adesso che ho trovato un modo legale per fare soldi sembra quasi che lo Stato non voglia che io mi tiri fuori dalla mia povertà, che mi voglia confinare nello status di ragazzo povero e cattivo”.

Forse basterebbe dialogare un po’ di più e spezzare questa catena di azione e reazione che non fa che alimentare un’ostilità reciproca. Anche i ragazzi di San Siro (Rondo, Sacky, Neima Ezza…ndr) sono bravissimi, bisogna conoscerli di persona per capirlo. Hanno tantissimo a cuore il loro quartiere, i bambini, gli anziani. E a loro spese si stanno impegnando per realizzare moltissime cose. Tentano di spingere per una riconciliazione, chiaramente sono giovani quindi qualche passo falso lo fanno».

Insomma, forse stanno cercando di dirci qualcosa?

«Assolutamente. Ci stanno dicendo in maniera conscia e inconscia che la nostra cultura fa acqua da tutte le parti, ci stanno smascherando. La parola “emergenza” non deve essere interpretata in maniera negativa: l’emergenza fa emergere i problemi, è sì un segnale d’allarme ma porta con sé la possibilità di migliorarsi e riscoprire valori più umani».

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