Alessia Pifferi: «Il papà di Diana non ha mai saputo della mia gravidanza». E fa il nome agli avvocati

La donna lo ha detto ai suoi avvocati. Che intanto preparano la consulenza psichiatrica e neuroscientifica

Alessia Pifferi, in carcere per aver fatto morire di stenti la figlia di un anno e mezzo Diana, ha fatto il nome del padre della piccola. Ma ha anche rivelato che l’uomo non sa nulla della sua gravidanza. Pifferi ha rivelato il nome del padre di Diana all’avvocata Solange Marchignoli, che dalla fine di luglio difende la donna con il collega Luca D’Auria. «Si tratta di una informazione che non dirò a nessuno, in quanto non ha alcuna rilevanza ai fini processuali», dice Marchignoli. Che ha fatto visita alla 36 enne a due settimane dall’arresto. Per decidere la strategia processuale. Che andrà verso la richiesta di incidente probatorio per le analisi del biberon e dell’altro materiale sequestrato. Tra cui una boccetta di En, che potrebbe essere stata data alla piccola.


La consulenza psichiatrica

Due docenti redigeranno una consulenza neuroscientifica e psichiatrica su Alessia Pifferi. Uno dei due sarà il professor Pietro Pietrini, ordinario di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica all’Università di Pisa. Proprio durante la discussione sulla consulenza la donna si è lasciata andare alle prime confidenze. A differenza di quanto sostenuto fino ad oggi, ha ammesso di sapere chi è il padre di Diana. E ha fatto il suo nome. Si tratta di un cittadino italiano che non sa nulla della gravidanza perché, quando l’ha scoperta, Alessia Pifferi stava riallacciando la relazione con il suo ultimo compagno. Ovvero quel fidanzato di cui in questi giorni avrebbe invece chiesto più volte.


Gli inquirenti potrebbero, se necessario, decidere di convocare il padre, anche se al momento non ci sono interessi investigativi in tal senso. «Il nostro ruolo è quello di assistere processualmente la signora e di rappresentare in modo corretto e rispettoso la sua persona – sottolineano gli avvocati Marchignoli e D’Auria – Questo ci obbliga, anche in nome del segreto professionale e delle regole deontologiche, a mantenere il riserbo su una serie di informazioni che emergono dai colloqui in carcere e dallo svolgimento della nostra attività». Per questo i difensori invitano la stampa a «riportare correttamente quanto da noi raccontato, senza costruzioni giornalistiche non corrispondenti alla realtà o puramente scandalistiche e volte a screditare la persona della nostra assistita».

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