L’impennata dei prezzi delle bollette di luce e gas sta spingendo al dietrofront i lavoratori nel settore pubblico e privato sulla preferenza allo smart working. Se da un lato le aziende premono per un ritorno al lavoro in presenza, dall’altro sono gli stessi dipendenti a considerare sempre meno conveniente lavorare da casa, dove i costi stanno diventando a tratti insostenibili. In un report citato da Il Messaggero del’Inapp, l’Istituto per l’analisi delle politiche pubbliche, è emerso come solo il 20% dei lavoratori sarebbe disposto a guadagnare meno per mantenere il lavoro da remoto per una parte della settimana, soprattutto in assenza di rimborsi per il caro-energia.
L’assenza di compensazioni
Per questo dai sindacati aumenta la pressione perché si stabiliscano delle compensazioni prima di firmare gli accordi individuali con cui è regolato lo smart working. Già nel nuovo contratto per gli statali non ci sarebbe una vera e propria chiusura alla possibilità di erogare un’indennità per chi lavora da casa come rimborso spese. Ma al momento fondi da destinare su questo fronte non ce ne sarebbero, con i lavoratori di fatto messi nelle condizioni di dover scegliere tra lo smart working a spese proprie o tornare in ufficio.
Il nodo dei buoni pasto
Nel settore pubblico si aggiunge anche la questione dei buoni pasto, mai del tutto risolta nelle contrattazioni sindacali nei ministeri. I dipendenti del Viminale, per esempio, non maturano buoni pasto nei giorni in cui è previsto il cosiddetto lavoro agile. Così come accade per quelli del ministero dell’Istruzione.
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