Cop27, accordo storico sulla giustizia climatica oscurato dai fallimenti sulle emissioni. Cosa si è fatto e cosa resta da fare

Le lobby dei combustibili fossili hanno “frenato” le decisioni della Conferenza, ma sono stati anche raggiunti risultati importanti

La presidenza egiziana della Cop27 aveva promesso che questa sarebbe stata una Cop focalizzata sull’implementazione degli obiettivi per contrastare il cambiamento climatico, orientata ad azioni concrete per la mitigazione delle emissioni e l’adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici. In realtà i risultati della Cop sono stati ambigui: si è raggiunto un obiettivo definito «storico» sulla creazione del fondo loss and damage, ma allo stesso tempo non si è ottenuto nessun progresso, rispetto a quanto già accordato l’anno scorso a Glasgow, sulle azioni di riduzione delle emissioni necessarie a rimanere entro 1,5°C di incremento di temperatura.


Crisi climatica e guerra in Ucraina

Come previsto, la guerra in Ucraina è stata menzionata spesso sia nei discorsi ufficiali come nelle discussioni e negli eventi collaterali. Vari Paesi hanno sottolineato come la guerra non deve deragliare gli sforzi per combattere i cambiamenti climatici. Mette invece ancora più in luce l’urgenza per i paesi di liberarsi dalla dipendenza dei combustibili fossili, di cui la Russia è uno dei principali produttori al mondo. Le restrizioni imposte sulla provvigione di petrolio e gas a cause della guerra in Ucraina stanno minacciando la sicurezza energetica di molti paesi. Un’analisi del gruppo di ricerca Climate Action Tracker, pubblicata proprio durante la COP27, dimostra come invece varie regioni del mondo, inclusi Europa, Nord America, Africa e Australia, hanno incrementato i nuovi progetti infrastrutturali e produttivi legati ai combustibili fossili da quando è iniziata la guerra. Questi nuovi progetti potrebbero consumare fino al 10% di quanto rimane del carbon budget mondiale, stimato per riuscire a contenere l’incremento di temperatura globale a 1,5° C, come raccomandato dall’accordo di Parigi.


Cos’è il fondo «loss and damage» e perché è importante

Domenica mattina dopo due settimane di negoziazioni alla Cop27, è stato raggiunto a Sharm El-Sheikh un accordo definito da molti «storico», sulla creazione di un fondo per il «loss and damage», che fornisce assistenza finanziaria alle nazioni vulnerabili colpite da disastri climatici. Si tratta di un traguardo a lungo atteso, sono trent’anni infatti (dal Rio Earth Summit del 1992), che i piccoli stati insulari e i paesi poveri chiedevano compensazioni per i danni causati dai cambiamenti climatici. Questa è stata la prima Cop nella storia a includere il loss and damage nell’agenda ufficiale della conferenza. L’espressione «loss and damage» si riferisce a perdite permanenti dovute ai cambiamenti climatici (come le perdite di vite umane dovute a un alluvione) o a danni che possono essere riparati (come i danni causati a infrastrutture da un ciclone). Si tratta in pratica dei due rischi climatici che rimangono nonostante gli sforzi nel ridurre le emissioni (mitigazione) e nell’adattarsi alle conseguenze dei cambiamenti climatici (adattamento). Finora tutte le risorse finanziarie allocate o promesse nell’ambito climatico sono state dirette o a mitigazione o ad adattamento. Mentre non esisteva un flusso di finanziamenti specificamente concepito per fornire aiuto a coloro che hanno subito perdite a causa dei cambiamenti climatici.

Il significato dell’istituzione di questo fondo va al di là delle risorse finanziarie che saranno destinate alle emergenze dovute ai disastri climatici. È fondamentale, perché riconosce l’importanza della giustizia climatica e l’ineguaglianza insita nei cambiamenti climatici, in cui i paesi più colpiti da impatti climatici (i più poveri) sono quelli che hanno meno responsabilità nell’averli causati, avendo storicamente emissioni di gas serra molto basse. I cambiamenti climatici esacerbano le diseguaglianze già esistenti tra paesi. Il fondo per loss and damage cerca di ridurre questo gap, stabilendo un meccanismo sulla base del quale i paesi avanzati si impegnano a fornire assistenza finanziaria per aiutare le nazioni povere a procurare soccorso e intervenire repentinamente, quando colpite da disastri climatici, per ricostruire le aree danneggiate. L’istituzione di questo fondo è un messaggio estremamente positivo, perché indica che i paesi cosiddetti “avanzati” hanno finalmente ascoltato le richieste di quelli poveri. È un passo importante verso la ricostruzione di un rapporto di fiducia tra Nord e Sud del mondo, che negli ultimi anni si è lacerato.

Nell’ambito dell’azione climatica si è infatti assistito a una perdita di credibilità dei paesi avanzati e un’ondata di risentimento da parte di quelli poveri, alimentata da varie circostanze geopolitiche. Queste includono la mal gestione nella distribuzione dei vaccini COVID tra nazioni, la quale ha incrementato le disuguaglianze già esistenti; una crisi energetica e alimentare che sta colpendo fortemente i paesi poveri, ma delle quali i paesi poveri non sono responsabili; e l’ipocrisia dei paesi più ricchi, che continuano ad espandere la produzione di combustibili fossili, ma allo stesso tempo chiedono agli altri di abbandonarla. I recenti eventi estremi come le alluvioni in Pakistan che hanno allagato più del 10% del territorio, colpendo un terzo dell’intera popolazione, hanno reso chiaro come i paesi poveri sono vittime di un fenomeno che non hanno causato. Nei paesi in via di sviluppo questi danni si aggiungono alle altre problematiche e priorità pre-esistenti, come per esempio combattere la fame, assicurare accesso ad acqua potabile ed energia.

Controversie sul fondo loss and damage: chi dovrà versarlo a chi

Non sono state prese però decisioni su quante risorse finanziarie allocare al fondo. Chi paga esattamente? Sulla base di quali condizioni si può accedere al fondo? Questo verrà deciso alla prossima COP28, ma è già fonte di controversie. Durante la COP27 l’Unione europea ha spinto affinché i paesi beneficiari del fondo siano solo quelli «vulnerabili»; è stato chiesto inoltre che la lista dei paesi donatori sia estesa ad alcuni paesi che sono tutt’ora classificati come «in via di sviluppo» o «economie in transizione» dal 1992 (quando è stato firmato lo United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), ma che nel frattempo sono cresciuti economicamente e sono diventati responsabili di una buona fetta delle emissioni – come nel caso di Cina, Russia, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. I paesi classificati come in via di sviluppo o in transizione economica, a differenza dei paesi sviluppati, non sono obbligati a provvedere risorse finanziarie destinate ad aiutare la mitigazione delle emissioni e l’adattamento agli impatti climatici nei paesi più poveri.

Quello che l’Ue ha chiesto è che stati come Cina, Russia e paesi del Golfo, siano chiamati a fornire le risorse finanziarie necessarie a coprire i danni e perdite causati dai cambiamenti climatici nei paesi poveri, dal momento che dal 1992 la loro economia è cresciuta notevolmente e proprio a causa della crescita economica degli ultimi 30 anni, sono ormai responsabili di una importante fetta delle emissioni globali. La Cina è un esempio eclatante, dal momento che è attualmente la seconda economia più grande al mondo in termini di Pil annuale assoluto; è il paese responsabile della più alta quantità di emissioni di gas serra al mondo; ed è secondo solo agli Stati Uniti in termini di emissioni storiche accumulate dalla rivoluzione industriale. Nonostante questo, il testo finale dell’accordo della COP27 indica che questi paesi non avranno l’obbligo di contribuire al fondo loss and damage, ma potranno farlo su base volontaria.

Le risorse finanziare promesse e quante ne servono

Il nuovo fondo verrà istituto entro la prossima COP28. Una commissione di paesi stabilirà nell’arco del prossimo anno che forma prenderà, chi potrà accedervi, quali paesi e istituzioni finanziarie dovranno contribuire – e se estendere la base dei donatori a paesi come Cina e Qatar. Il rischio principale è che questo nuovo fondo si riveli un cesto vuoto o semi pieno, come è già successo con altre iniziative dedicate alla finanza climatica – come l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari annuali che i paesi ricchi hanno promesso di fornire entro il 2020 per finanziare la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi poveri, ma che non è stato ancora raggiunto. In ogni caso la COP27 è diventata la prima COP nella storia che ha visto alcuni paesi come Austria, Nuova Zelanda e Belgio promettere risorse per il loss and damage. Questo da solo rappresenta un obiettivo importante, dal momento che segnala un cambiamento di attitudine. I fondi per il loss and damage infatti storicamente sono sempre stati un taboo nella finanza del clima.

Queste risorse finanziarie promesse durante la COP27 da alcuni paesi, che ammontano a più di 300 milioni di dollari, sono comunque altamente insufficienti se comparati alle stime di quante risorse effettivamente i paesi in via di sviluppo necessitano per il loss and damage. Un autorevole studio stima che entro il 2030 i paesi in via di sviluppo dovranno affrontare 290-580 miliardi di dollari in danni residui annuali, dovuti a cambiamenti climatici che non possono essere prevenuti con misure di adattamento. Altri studi propongono stime simili. Inoltre, secondo la testata Carbon Brief, molte di queste risorse allocate durante la COP27 al loss and damage, consistono in realtà di fondi climatici che erano già stati annunciati precedentemente e che sono stati semplicemente ri-categorizzati come loss and damage.

Il fallimento della COP27 sulla mitigazione delle emissioni

L’accordo su loss and damage è stato visto come un successo, soprattutto dai paesi vulnerabili e in via di sviluppo, i quali hanno lodato il raggiungimento di un accordo per istituire un fondo dedicato ad aiutare i paesi poveri ad affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici. Ma il risultato generale della COP27 è stato giudicato come un fallimento dal punto di vista del progresso verso una drastica riduzione delle emissioni necessaria a rispettare l’obiettivo dei i 1,5° C, soprattutto a causa dell’influenza esercitata dai paesi produttori di combustibili fossili, che sono stati accusati di aver rimosso dall’accordo alcuni impegni chiave su riduzione delle emissioni e graduale eliminazione dei combustibili fossili. Come conseguenza, la COP27 ha prodotto una soluzione insoddisfacente di: il Sharm el-Sheikh Implementation Plan, che non aggiunge nulla di significativo a quanto già dichiarato l’anno scorso alla COP26, nel Glasgow Climate Pact.

Le principali “mancanze” dell’accordo riguardano due aspetti chiave:

  • Implementazione del target 1,5° C – Sebbene il testo includa l’obiettivo, il linguaggio usato è stato criticato come debole e povero di elementi di progresso rispetto alla COP26. Il testo infatti non include gli obiettivi intermedi necessari per limitare l’incremento di temperatura sopra i 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali, in linea con gli ultimi risultati del AR6 IPCC WGIII report: questi sono gli obiettivi del picco di emissioni entro il 2025 e il dimezzamento delle stesse (rispetto ai livelli del 2010) entro il 2030. Limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali è fondamentale, poiché oltre tale soglia gli impatti a cascata del collasso climatico diventeranno rapidamente catastrofici e in alcuni casi irreversibili. Al momento la temperatura è già aumentata di 1,1° C rispetto ai livelli pre-industriali. C’è una probabilità del 50% che nei prossimi cinque anni il Pianeta superi il limite di 1,5° C. E la probabilità diventa molto alta nell’anno 2030 se le politiche climatiche rimangono le stesse. Questo significa che abbiamo ancora l’opportunità di stare dentro la soglia dei 1.5°C, ma la finestra di azione è molto ristretta – una manciata di anni fino al 2030 – per ridurre drasticamente e repentinamente le emissioni al fine di evitare conseguenze catastrofiche.
  • Graduale riduzione di tutti i combustibili fossili – L’anno scorso la COP26 ha raggiunto un accordo fondamentale sulla graduale riduzione (phase down) dell’uso del carbone in impianti di carbone non dotati di tecnologia di abbattimento delle emissioni, come la tecnologia per la cattura e sequestro del carbonio (CCS). L’accordo raggiunto l’anno scorso, sebbene importante, è completamente insufficiente a rispettare l’obiettivo dei 1.5C. Come dimostrato dal AR6 IPCC WGIII report , per rimanere entro i 1.5°C, il carbone non deve essere semplicemente ridotto (phase down) ma completamente eliminato (phase out). Inoltre, i nuovi progetti per i combustibili fossili che i paesi hanno già pianificato di implementare nei prossimi anni, sono totalmente incompatibili con il target del 1.5°C. Anche la International Energy Agency ha avvertito che per rimanere entro i limiti di sicurezza, lo sfruttamento e lo sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio e gas sarebbero dovuti cessare già dall’anno scorso e che nessuna nuova centrale a carbone dovrà mai più essere costruita. Alla COP27, l’India ha proposto di estendere questo accordo a tutti i combustibili fossili. Ma nonostante una coalizione di oltre 80 paesi abbia appoggiato la proposta, la presidenza egiziana ha rifiutato di includerlo nel testo finale.

L’ombra delle lobby dei combustibili fossili sulla COP27

Secondo diversi esperti questi e altri impegni non sono stati inclusi nell’accordo finale, principalmente a causa dell’influenza dell’Arabia Saudita e altri petrol-state. Ma anche altri paesi come Cina, Russia e Brasile hanno contribuito a indebolire alcuni aspetti del testo. Anche secondo Laurence Tubiana, una degli “architetti dell’accordo di Parigi del 2015”, i paesi produttori di combustibili fossili sono stati responsabili nel bloccare i tentativi di raggiungere un accordo più ambizioso ed in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Vari osservatori hanno fatto notare come la presidenza egiziana nella COP abbia prodotto un testo che protegge gli interessi di industrie e paesi produttori di combustibili fossili. Alcuni hanno messo in discussione l’integrità e trasparenza della presidenza egiziana della COP. Questo si collega anche all’eccezionale presenza alla COP27 dei lobbisti delle industrie dei combustibili fossili, che sono riusciti a inserirsi in molte discussioni. Secondo un report della Ong Corporate Accountability pubblicato proprio durante la COP27, 636 lobbisti dei combustibili fossili erano registrati alla COP27, il 25% in più rispetto ai quelli presenti alla COP26. Se questi lobbisti fossero stati la delegazione di un paese, sarebbero stati la seconda più numerosa alla COP27 dopo gli Emirati Arabi.

Secondo un’altra analisi di Corporate Europe Observatory, 18 su un totale di 20 dei corporate sponsor della COP27 supportavano direttamente o erano in partnership con l’industria dei combustibili fossili; inclusa Coca Cola, Egyptair e Orascom Construction, la quale ha recentemente costruito in Egitto una delle più grandi centrali di gas al mondo. Climate Home News ha riportato che alcuni grandi produttori di combustibili fossili come Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi e Canada, hanno usato i loro stand alla conferenza per promuovere i loro piani di utilizzo di tecnologie per la cattura e sequestro del carbonio non ancora disponibili in grande scala, che hanno lo scopo di rimuovere la CO2 dalle centrali che producono energia da combustibili fossili, di fatto prolungando il loro uso e rallentando potenzialmente la transizione verso le fonti rinnovabili. Il prossimo anno la COP28 avrà luogo a Dubai, negli Emirati Arabi, uno dei principali esportatori di petrolio al mondo.

Cosa resta da fare e le prossime sfide della COP28

Se l’istituzione di un fondo loss and damage ha segnato un momento storico per la giustizia climatica, dall’altro lato non offre nessuna risposta alla crisi climatica stessa, per la quale invece servono riduzioni drastiche nelle emissioni e sulla quale la COP27 non ha apportato nessun progresso. Dall’altro lato va comunque riconosciuto come avanzamenti nella giustizia climatica possono avere conseguenze positive per la riduzione delle emissioni globali. La creazione del fondo loss and damage è stato un passo importante verso la ricostruzione di un rapporto di fiducia tra Nord e Sud del mondo. Se i paesi ricchi non accettano di sobbarcarsi la responsabilità per le loro emissioni storiche e contribuire ai danni causati ai paesi vulnerabili, i paesi poveri potrebbero decidere di non partecipare allo sforzo collettivo di mitigazione delle emissioni. Ed avere i paesi poveri on board è fondamentale per rimanere entro i 1.5°C.

I paesi in via di sviluppo ed emergenti sono infatti quelli che si prevede cresceranno economicamente di più nei prossimi 30 anni. La loro futura crescita economica potrebbe prendere due strade diverse: seguire la strada percorsa dai paesi avanzati, basando la loro futura economia sui combustibili fossili; oppure fare quello in gergo si chiama leapfrogging, ovvero balzare direttamente a un’economia sostenibile a zero emissioni, saltando la fase ad alte emissioni. La strada che i paesi poveri decideranno di percorrere derminerà fortemente se saremmo in grado o no di rimanere sotto i 1.5°C. Al momento il gap da colmare è gigantesco. Il recente UNEP’s Emissions Gap Report 2022 mostra come le politiche attualmente in atto porterebbero ad un incremento di temperatura di 2.8°C, rispetto ai 1.5°C identificati come limite di sicurezza. Anche le politiche e gli obiettivi climatici che gli Stati hanno promesso ma non ancora implementato, causerebbero comunque un incremento della temperatura di 1.8-2.1°C.

Il periodo da qui alla prossima COP28 sarà quindi un fondamentale banco di prova. I dettagli del fondo loss and damage verranno decisi durante questo arco di tempo. Inoltre, i Paesi avanzati hanno promesso di raggiungere il target dei 100 miliardi di dollari da allocare alla finanza del clima entro il prossimo anno. Ma il luogo scelto per la COP28, Dubai negli Emirati Arabi, fa cadere un’ombra sulla diplomazia del clima e sulle speranze di ottenere progressi nell’ambizione climatica. Gli Emirati Arabi infatti sono uno dei principali esportatori di petrolio al mondo e con un evidente interesse a prolungare l’uso di combustili fossili come parte della soluzione ai cambiamenti climatici. Se attivisti ed esperti hanno accusato la presidenza egiziana di ostacolare il progresso sul programma di mitigazione delle emissioni, non sappiamo cosa aspettarci dalla prossima COP28.

Roberta Pierfederici, analista politico e consulente di ricerca presso il The London School of Economics and Political Science

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