I suoi confidenti hanno deciso di venderle. Il ricavato andrà in beneficenza
Trentadue lettere di Lady Diana, principessa del Galles, andranno all’asta. I suoi stretti confidenti Susie e Tarek Kassem hanno deciso di venderle. Le missive raccontano la frustrazione del divorzio con il principe Carlo. «Sto passando un momento molto difficile e la pressione è tanta e da tutti i fronti. È troppo difficile a volte tenere la testa alta e oggi così sono piegata sulle ginocchia sperando solo che questo divorzio vada avanti presto a un prezzo terribile», scrive Lady D nell’aprile 1996. A maggio ricorda in un’altra lettera come le sue «linee telefoniche sono costantemente registrate». Diana appare disperata: «Se avessi solo saputo un anno fa che cosa avrei passato con questo divorzio, non avrei acconsentito. È atroce e orribile». Per la coppia di amici è «una responsabilità troppo grande, essere proprietari di documenti così». Tra le missive ce n’è anche una in cui Diana ricorda il Natale del 1995, quando William ed Harry erano ancora bambini: «Ero così elettrizzata di essere invitata in un’occasione di famiglia, soprattutto perché mi avete fatta sentire parte del team». Le lettere andranno all’asta il 16 febbraio per Lay’s, casa d’asta in Cornovaglia. I proventi dalla vendita saranno devoluti alle charities sostenute dalla principessa. Si stima un incasso di 90 mila sterline.
Quando Salvatore Riina convoca la Commissione regionale di Cosa Nostra tra settembre e ottobre 1991 è molto arrabbiato. ‘U Curtu (158 centimetri esatti di pura crudeltà) è da una decina d’anni il Capo dei Capi. Ed è una posizione che il contadino orfano di padre si è sudato. Grazie a Luciano Liggio è diventato uomo d’onore da minorenne. È latitante dal 1969. Ha vinto la Seconda Guerra di Mafia sterminando quelli della fazione di Bontate e Badalamenti. Adesso tutta Cosa Nostra è ai piedi della Belva. Ma c’è un problema: lo Stato. O meglio. Mentre con alcuni rappresentanti lui va d’amore e d’accordo, altri gli danno la caccia. Ed è in arrivo la sentenza del maxiprocesso di Palermo. Tutti i boss rischiano l’ergastolo. E il carcere duro. Questo Totò non lo può accettare. Perciò a dicembre, quando come da tradizione i boss si vedono per scambiarsi gli auguri di Natale, svela il suo piano.
«Fare la guerra per fare la pace»
L’idea di Riina è che lo Stato abbia cominciato da un po’ di tempo a giocare sporco. La mafia ha tanti referenti nei partiti di governo. Ma da quando Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e altri giudici hanno cominciato la loro guerra i vecchi amici possono fare poco. Perché questi usano i pentiti (ma questa non è una novità) e però i tribunali gli credono (questa sì). In più da cinque anni con la legge Gozzini è arrivato il 41 bis. Prima i boss in carcere ci andavano come in villeggiatura. Adesso sta diventando impossibile persino comunicare con gli affiliati fuori. Per questo durante la successiva riunione della commissione provinciale a casa di Girolamo Guddo Riina informa gli altri boss – i quali lo ascoltano in religioso silenzio – che «qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace». Ovvero bisogna fare «tipo libanesi, tipo i colombiani». Prima di tutto uccidere i politici che hanno tradito o non hanno fatto abbastanza. Poi fare fuori quei due giudici. Infine si possono colpire quei giornalisti che ce l’hanno tanto con la mafia (Maurizio Costanzo, Michele Santoro). E magari, se avanza tritolo, qualche attentato. Riina, secondo alcuni, ha anche comunicato la sigla che rivendicherà gli attentati: Falange Armata. Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione conferma l’ergastolo per lui e altri. Tra febbraio e marzo la Commissione regionale e quella provinciale decidono di agire.
Intanto Matteo…
Intanto il Piccolo Principe dell’Onorata Società è diventato grande. A 14 anni il padre gli ha insegnato a sparare. Ma Don Ciccio nell’occasione gli ha anche elargito una massima: «C’è differenza tra un mafioso e un cretino con la pistola. Il mafioso non ha bisogno della pistola per farsi obbedire. Quando è costretto a sparare vuol dire che non è stato bravo a convincere quella persona». Francesco Messina Denaro è diventato da qualche anno il capo della sua provincia. Lo ha voluto Riina. I due si conoscono e si stimano, anche se la pensano diversamente. Per il padre di Matteo la mafia deve usare il soft power e sparare solo se è strettamente necessario. Il che è interessante per uno a cui sono stati attribuiti una ventina di omicidi. Zu’ Toto il piccolo Matteo lo ha «tenuto sulle ginocchia». ‘U Siccu ha pure commesso il suo primo omicidio. E ha ricevuto un incarico proprio dal Capo dei Capi, quello di decidere chi deve comandare a Partanna tra il clan degli Accardo e gli Ingoglia. Lo ha fatto «sterminando», come gli ha insegnato lo Zio. Che però una volta, davanti a testimoni, gli dice proprio «ti rompo le corna». Perché Messina Denaro ha fatto qualcosa che non doveva in merito alla gestione di un appalto. Ma ‘U Curtu si fida assai di ‘U Siccu. E per lui prepara una gita speciale in continente.
Vacanze romane
Nei primi mesi del 1992 Matteo Messina Denaro con Giuseppe Graviano, Vincenzo Sinacori e altri riceve da Riina in persona l’incarico di andare a Roma. Il gruppo di fuoco ha l’obiettivo di uccidere il giudice Falcone, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli e Maurizio Costanzo. Il mandato del Capo dei Capi è di portare a termine l’affare senza usare l’esplosivo. Messina Denaro incarica un picciotto di trovargli un appartamento ai Parioli che faccia da base. Alla fine però dovrà accontentarsi di Torre Maura. Gli appuntamenti sono alla Fontana di Trevi. E qui i racconti divergono. Secondo alcune fonti l’attentato a Falcone i Bravi Ragazzi lo studiano davanti a un ristorante a Campo de’ Fiori dove il giudice è solito mangiare persino all’aperto. Secondo altre gli assassini cercano sia Falcone che Martelli tra via Arenula e tre ristoranti che secondo Riina li ospitano regolarmente. E non li trovano. Notano però che Costanzo fa sempre lo stesso tragitto per andare al teatro Parioli e registrare il suo Show. E torna a casa più o meno sempre alla stessa ora. Il giornalista si può uccidere con l’esplosivo. Ma per farlo bisogna avere l’autorizzazione di Riina. Dopo aver fatto shopping di camicie a via Condotti Matteo torna in Sicilia. E scopre che il Capo dei Capi ha cambiato idea. Niente attentato a Costanzo. Niente Martelli. Falcone invece sì. Ma per lui e per il collega la Belva ha in mente un piano speciale.
Perché Riina ce l’aveva con Costanzo
L’ostilità di Riina nei confronti dei giornalisti antimafia è testimoniata da molte frasi riferite dai pentiti. Un altro obiettivo era Andrea Barbato. Ma i Corleonesi avevano messo nel mirino persino il presentatore Pippo Baudo. In più nel settembre del 1991 Costanzo e Santoro conducono in staffetta una serata contro la mafia con le trasmissioni Samarcanda(Rai 3) e Maurizio Costanzo Show (Canale 5). All’evento partecipano sia Falcone che Martelli. Ma c’è in particolare un episodio che scatena la rabbia della Belva nei confronti del conduttore Mediaset. Ed è rivelatore dell’ideologia e della mentalità che governa Cosa Nostra. Durante una di queste trasmissioni si parla dei mafiosi ricoverati in ospedale. Nei confronti del boss Francesco Madonia si ipotizza che abbia un tumore. Costanzo dice: «Se non ce l’ha, che gli venga». Nell’occasione Brusca si presenta da Zu Toto per chiedere provvedimenti. «Ci sto pensando. C’è già chi ci sta lavorando», è la replica.
Salvo Lima, l’attentatuni e via D’Amelio
Il 12 marzo 1992, alla vigilia delle elezioni politiche che segneranno la sconfitta del pentapartito, Salvo Lima è diretto all’Hotel Palace per organizzare un convegno della corrente andreottiana. Ci sarà anche il Divo Giulio. «Dobbiamo rompere le corna al padre e al figlio. Tutta la razza. Non deve restare niente», dice ‘U Curtu. In via delle Palme i tre occupanti dell’Opel Vectra vengono affiancati da una moto Honda. Partono i primi spari. L’auto si ferma. I tre scappano in tre direzioni diverse. Lima apre lo sportello, scende con un’agilità insospettabile per un uomo della sua mole e scappa dando le spalle ai killer. «Tornano, Madonna santa, tornano». I primi due colpi lo raggiungono al corpo. Il terzo alla testa lo finisce. Il 23 maggio 1992 alle ore 17.57 sullo svincolo di Capaci dell’autostrada A29 500 chili di tritolo uccidono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. I feriti sono 23. I poliziotti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che viaggiavano nella terza auto della scorta sono vivi. Quando la televisione annuncia il decesso di Falcone e della moglie all’Ucciardone di Palermo i detenuti festeggiano con vino e champagne. C’è anche chi si accontenta della Coca Cola. «Non potevamo tappargli la bocca», precisano dalla direzione. Il 19 luglio 1992 in via Mariano D’Amelio 21 alle ore 16,58 una Fiat 126 rubata e piena di esplosivo scoppia davanti alla casa della madre e della sorella di Paolo Borsellino. Oltre al giudice muoiono gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Si salva il poliziotto Antonino Vullo. Nel momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta. Lo Stato reagisce quella sera stessa. Il ministro Martelli firma il carcere duro per 300 tra mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti. E li sbatte tra l’Asinara e Pianosa.
Le sentenze e i documenti
Messina Denaro viene condannato nel 2020 in contumacia per il reato di strage per via d’Amelio e per Capaci. La sentenza si basa sulla presenza di ‘U Siccu alla riunione del settembre 1991 a Castelvetrano in cui Riina annuncia la strategia delle stragi. I pentiti Sinacori, Geraci e Brusca hanno accusato l’ultimo dei Corleonesi di aver progettato un attentato a Borsellino quando era procuratore di Marsala. L’ex mafioso Maurizio Avola colloca Messina Denaro con Aldo Ercolano su una A112 in via d’Amelio il giorno dell’attentato. Avola è indagato per calunnia e autocalunnia a Caltanissetta. Nel libro “L’Invisibile” di Giacomo di Girolamo si racconta una storia diversa. Secondo la quale quel 19 luglio Messina Denaro è a Trapani per l’inaugurazione della gioielleria del killer Vito Mazzara. E quando sa dell’attentato cerca subito un contatto con Riina. Il boss Giovan Battista Ferrante assiste all’incontro. Nel quale ‘U Curtu risponde «i massoni vollero ca si fici chisto».
L’arresto di Riina e il passaggio di testimone
Il 15 gennaio 1993 Totò Riina conclude la sua latitanza trentennale. I carabinieri lo catturano in una villetta di Palermo dove alloggiava con la sua famiglia. Grazie a Balduccio Di Maggio, suo ex autista. Anche se la voce che gira in Cosa Nostra è che sia stato il suo braccio destro Bernardo Provenzano a “vendere” il Capo dei Capi. Che proprio quel giorno, nel pomeriggio, avrebbe dovuto incontrarsi con Messina Denaro. I suoi uomini, sfruttando l’incredibile errore della mancata perquisizione del covo, entrano nella casa, portano via tutto e intonacano i muri. E qui quelle stesse malelingue che accusavano Provenzano dicono anche un’altra cosa: tutte le carte di Riina con dentro gli appunti che potrebbero rivelare tanti segreti d’Italia vengono consegnate proprio a Messina Denaro. Nino Giuffrè, ai tempi braccio destro di Provenzano, dice che «quei segreti costituiscono un’arma di ricatto. Ma anche la chiave che custodisce i segreti di Cosa Nostra». Naturalmente non c’è nessuna prova che Messina Denaro sia o sia stato in possesso di quelle carte. Ma l’episodio si racconta anche per significare il passaggio del testimone. Mentre tutti guardano a Provenzano come all’erede naturale della leadership dei Corleonesi, è il piccolo Matteo che prende una decisione importante. Ovvero quella di proseguire con l’attacco al cuore dello Stato.
Matteo Messina Denaro, lo stragista
Riina aveva messo nella lista degli obiettivi da colpire anche alcuni attentati a monumenti. Messina Denaro ne parla ai suoi. Con lo stesso obiettivo: fare la guerra per fare la pace. «Tu non credi che facendo questi attentati qualcuno non si interessa a cercare un compromesso?», dice al pentito Francesco Geraci. Leoluca Bagarella, che aveva detto che «finché c’è un corleonese fuori si va avanti come prima», dà il suo ok alla strategia dei monumenti. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 l’esplosione di un’autobomba in via dei Georgofili a Firenze provoca la morte di cinque persone vicino alla Galleria degli Uffizi. Tra le vittime c’è Caterina, che ha appena 50 giorni. Il 27 luglio un’autobomba esplode vicino alla Galleria d’arte moderna di via Palestro a Milano. Anche qui muoiono cinque persone. Tra cui Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina. Quello stesso giorno a Roma un’autobomba esplode a San Giovanni in Laterano vicino alla basilica. Un’altra nei pressi della chiesa di San Giorgio in Velabro. Complessivamente si contano 22 feriti. Poco prima Gaspare Spatuzza, su ordine di Giuseppe Graviano, imbuca una serie di lettere destinate alle redazioni dei quotidiani: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire andranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno centinaia».
I fallimenti
Prima però la mafia aveva sbagliato. La sera del 14 maggio una Fiat Uno viene parcheggiata in via Ruggero Fauro. Nei pressi dello studio in cui Costanzo registra il suo show. La strada e il percorso lo conoscono tutti perché un anno prima c’erano state le “Vacanze romane”. I Bravi Ragazzi aspettano il giornalista su un’Alfa Romeo grigia. Ma lui, con la moglie Maria De Filippi, invece passa su una Mercedes. Salvatore Benigno ha un attimo di esitazione prima di schiacciare il pulsante. Poi lo fa, ma ormai l’auto è passata. L’esplosione provoca danni ai palazzi e il ferimento di cinque persone. Ma Costanzo è vivo. Il 23 gennaio 1994 una Lancia Thema viene parcheggiata in via dei Gladiatori vicino allo Stadio Olimpico a Roma. Di fronte al presidio dei carabinieri: quel giorno si gioca Roma-Udinese. Nell’auto c’è esplosivo ma anche dei tondini di ferro appositamente tagliuzzati: con la detonazione dovrebbero partire come proiettili e uccidere. Spatuzza e Benigno si appostano su una collinetta vicino allo stadio. Da lì fanno partire la detonazione. Ma il telecomando si inceppa. La strage fallisce. Così come fallisce l’attentato dinamitardo a Totuccio Contorno del 14 aprile.
Era solo un bambino
Giuseppe Di Matteo ha 13 anni quando il 23 novembre 1993 viene rapito. Suo padre Santino ha detto tutto quello che sapeva sulla strage di Capaci. E questo ha portato alle indagini su Riina, Brusca, Bagarella e Messina Denaro. Dopo 779 giorni di sequestro l’11 gennaio del 1996 Vincenzo Chiodo gli dice di mettersi in un angolo. Gli va dietro e gli mette una corda al collo. Poi lo tira fino a farlo cadere a terra. Enzo Brusca, fratello di Giovanni, gli blocca le braccia, Giuseppe Monticciolo le gambe. «Il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino». Poi lo sciolgono nell’acido.
La latitanza
Ma intanto qualcosa sta cambiando intorno ai boss. A fine 1993 Spatuzza incontra Giuseppe Graviano in via Veneto a Roma. Questi gli confida di aver ottenuto quello che voleva grazie ai contatti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Ma quattro giorni dopo il fallito attentato dell’Olimpico Madre Natura viene arrestato a Milano insieme al fratello Filippo. Intanto Messina Denaro guarda al telegiornale un servizio sulla perquisizione di alcuni covi di Cosa Nostra a Roma. Sono gli appartamenti che servivano a pianificare gli attentati durante le Vacanze Romane. «Sono rovinato», dice a Giovanni Brusca. Intanto Balduccio Di Maggio lo accusa di un quadruplice omicidio commesso nel 1989 nella guerra di Partanna. Il 2 giugno 1993 la Dda di Palermo lo va a cercare a Castelvetrano. Così inizia la sua latitanza. Quando lo avvertono che è indagato ai suoi dice: «L’avvocato? Non voglio difendermi. Non voglio perderci pure questi soldi». Matteo Messina Denaro diventa “L’invisibile”, come lo definisce il libro di Giacomo Di Girolamo. Per trent’anni.
Gli avvistamenti e le indagini
Nei primi tempi della latitanza si nasconde ad Aspra, frazione di Bagheria. Lì intreccia una relazione con Maria Mesi. I due andranno l’anno dopo il vacanza in Grecia: sul passaporto del boss c’è scritto il nome di Matteo Cracolici. Sempre nel 1994, secondo il pentito Sinacori, si opera all’occhio destro alla clinica Barraquer di Barcellona. La stessa in cui andrà anni dopo una delle magistrate che gli ha dato la caccia: Teresa Principato. L’11 aprile 2006 viene arrestato Bernardo Provenzano. Nel casolare di Binnu ‘u Tratturi la polizia trova tanti pizzini che il boss, invece di distruggere come nella tradizione mafiosa, ha conservato. Tra questi ce ne sono anche di Messina Denaro. Che si firma “Alessio”. Nel giugno 2009 l’operazione Golem porta all’arresto dei suoi fiancheggiatori. L’anno dopo, nell’operazione Golem 2, arrestano anche il fratello maggiore Salvatore. Il 9 maggio 2010, secondo il pentito Manuel Pasta, assiste alla partita di calcio tra Palermo e Sampdoria allo stadio Renzo Barbera. Nel luglio 2015 viene presuntamente avvistato a Baden in Germania. Altri lo indicano in Venezuela. Nel maggio 2019 i magistrati scoprono una loggia massonica a Castelvetrano. Nel 2020 i poliziotti fermano alcuni suoi postini.
La Cosa Grigia
Ma come con il Macavity di Thomas Elliot con Messina Denaro succede sempre la stessa cosa: «You may meet him in a by-street, you may see him in the square – But when a crime’s discovered, then Macavity’s not there!». Ad un certo punto qualcuno arriva ad ipotizzare che il boss sia morto. E che sia la sorella Anna Patrizia, sua postina, a comandare Cosa Nostra spacciandosi per lui nei pizzini. Che lui sia vivo però è un fatto: il 30 novembre di ogni anno per qualche tempo un necrologio ricorda Don Ciccio, spesso con citazioni in latino. Secondo gli inquirenti è lui a scriverli. La figlia Lorenza Alagna è la prova che il boss è riuscito a mettere incinta la madre Franca da latitante. A un’altra sua fiamma, Sonia M., scrive: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena…».
Intanto però anche la mafia è cambiata. In primo luogo non spara più. E nemmeno fa scoppiare bombe per uccidere giudici o mandare messaggi. La sfida allo Stato di Riina è acqua passata. Anche perché i boss l’hanno persa. È scomparso anche il tesoro di Cosa Nostra. Usato per finanziare la latitanza di Messina Denaro, Provenzano e degli altri? Impossibile. I rapporti dell’Antimafia dicono invece che nel tempo Cosa Nostra è cambiata. È diventata una Cosa Grigia. Che prospera in quella linea sottile tra Stato e imprenditoria. I picciotti che spacciano per strada sono un’appendice del passato. I soldi della mafia sono stati reinvestiti in attività più redditizie. Come l’eolico, che ha interessato proprio Messina Denaro. Anche se secondo Riina avrebbe dovuto metterseli «nel culo», quei pali della luce, e pensare un po’ di più ai carcerati e non a sé stesso.
Mistero Messina Denaro
Matteo Messina Denaro è stato il protagonista della trasformazione della mafia. Mentre Provenzano viveva come un povero contadino in un casolare, lui frequentava gli uffici finanziari. E portava Cosa Nostra nel Terzo Millennio. Esattamente come in quei film di mafia in cui il figlio ripulisce le attività del padre ma non riesce ad abbandonare anche i suoi metodi. Di lui tante cose non le sapremo mai perché non ha intenzione di dircele. Di altre ne sappiamo persino troppe, visto il mastodontico lavoro investigativo di questi anni. Mistero Messina Denaro. Di lui non sappiamo chi, cosa, come, dove e quando. Ma soprattutto manca la risposta alla domanda fondamentale: perché. (2 – Continua)
Fonti: L’invisibile. Matteo Messina Denaro – Giacomo Di Girolamo, Il Saggiatore, 2017; Nient’altro che la verità – Michele Santoro, Guido Ruotolo, Feltrinelli, 2021; Matteo Messina Denaro, latitante di Stato – Marco Bova, Ponte alle Grazie, 2021; Lo chiamano ‘U Siccu – Malitalia, 2012