Dal ciclo produttivo allo smaltimento delle batterie, tutti i rischi ambientali dell’auto elettrica: «Inquina meno ma non fermiamo la ricerca» – Le interviste

Abbotto (Bicocca): «La scienza converge nel dire che l’auto elettrica ha un impatto ambientale molto più basso». Ma tra gli esperti c’è chi invita a non dimenticarsi dei biocarburanti

La svolta annunciata dall’Unione Europea nei giorni scorsi non lascia più spazio a ripensamenti: il futuro della mobilità sarà elettrico. Il 14 febbraio, il Parlamento Europeo ha dato il suo ok definitivo per mettere al bando, a partire dal 2035, la vendita di nuovi veicoli a benzina e diesel. Dietro questa decisione c’è la volontà di rendere più sostenibile il settore dei trasporti, che da solo è responsabile del 16% delle emissioni globali di gas serra. Eppure, non tutti sono d’accordo nel ritenere le auto elettriche una soluzione green. C’è chi pone il problema dello smaltimento delle batterie e chi fa notare che puntare tutto su una sola tecnologia potrebbe non rivelarsi una scelta lungimirante. Ma qual è il vero impatto ambientale di un’auto elettrica? È maggiore, minore o uguale a quello di un’auto a benzina? «Al momento la situazione è chiara: anche secondo gli scenari peggiori delle emissioni di un’auto elettrica ci sarebbe comunque un risparmio di emissioni rispetto all’uso di auto tradizionali», precisa Alessandro Abbotto, professore di Scienza dei materiali all’Università Milano Bicocca. 


Un primo confronto

Per calcolare l’impatto ambientale di un veicolo occorre fare la cosiddetta «analisi del ciclo di vita», in inglese Life cycle assessment (Lca). In questo modo è possibile valutare le emissioni non solo durante la fase di utilizzo dell’auto, ma anche durante tutti gli altri step: dall’estrazione delle materie prime fino alla sua rottamazione. «La scienza converge nel dire che l’auto elettrica ha un impatto ambientale notevolmente più basso sia delle auto a benzina sia di quelle a idrogeno», spiega Abbotto. «Il risparmio maggiore ovviamente si registra nella fase di utilizzo effettivo del veicolo, durante la quale le auto elettriche non producono quasi nessun tipo di emissione: né di gas climalteranti, come la CO2, né inquinanti, come gli ossidi di azoto», aggiunge il professore. Un esempio citato dal New York Times chiarisce bene questa differenza. Una Chevrolet Bolt elettrica produce in media 189 grammi di CO2 per ogni miglio percorso. Il modello più recente di Toyota Camry a benzina, invece, ne produce più del doppio: 385 grammi di CO2 per miglio.


A fare la differenza è anche la fonte da cui si ricava l’elettricità che alimenta l’auto elettrica. In Italia, per esempio, soltanto il 44% proviene da fonti rinnovabili. Più della metà dell’energia consumata, invece, proviene da fonti fossili come carbone e gas naturale, che a differenza di solare ed eolico hanno un forte impatto ambientale. «Anche in questo caso, però, l’inquinamento che si produce a monte dell’utilizzo dell’auto non è abbastanza alto da rendere vani i vantaggi ambientali dell’auto elettrica», chiarisce Abbotto. Con il tempo, poi, questa forma di inquinamento dovrebbe essere destinata a ridursi gradualmente. L’Italia, per esempio, si è data l’obiettivo di ricavare il 75% della propria energia elettrica da fonti rinnovabili entro il 2030. In altre parole, per poter parlare davvero di sostenibilità ambientale, la svolta verso l’auto elettrica deve andare di pari passo con la transizione energetica verso fonti pulite.

I tre problemi dell’auto elettrica

Come ogni tecnologia, anche l’auto elettrica non è certo esente da problemi. In particolare, sono tre i punti critici: consumo di elettricità, consumo di acqua e recupero delle materie prime. Per quanto riguarda l’elettricità, l’Italia sembra essere sulla buona strada. «Molti studi dimostrano che, anche con un parco macchine di 10 milioni di veicoli, l’impatto del settore sul consumo complessivo sarebbe intorno al 5%. Una cifra perfettamente gestibile», spiega Abbotto. Il problema, semmai, potrebbero essere i «periodi di picco», che si potrebbero risolvere con la costruzione di una rete di accumulatori. Anche il consumo di acqua non sembra destare troppe preoccupazioni. «In Italia e in Europa non dovremmo avere alcun tipo di problema – chiarisce Abbotto -. Lo stesso non si può dire per altri Paesi, per esempio nel nord Africa, dove l’acqua dolce è meno reperibile».

Il vero problema dell’auto elettrica, dunque, resta uno: le materie prime. Ad oggi, i due materiali più utilizzati per produrre batterie sono il litio e il cobalto. L’estrazione di cobalto, in particolare, produce scarti tossici, che possono inquinare sia l’ambiente circostante sia l’aria. Alcune ong che si occupano di diritti umani, poi, fanno notare come in Congo, dove si estrae circa il 70% del cobalto su scala mondiale, quasi sempre si lavora senza le adeguate protezioni. «Anche nei prossimi anni lo standard sarà rappresentato da cobalto e litio. E questo è un problema che va risolto», ammette il professore della Bicocca. «Per fortuna l’emancipazione dal cobalto è già ben avviata. È importante proseguire in due direzioni: da un lato il riciclo, dall’altro la ricerca di materiali alternativi, come il manganese».

Lo smaltimento delle batterie

I problemi legati alle batterie non riguardano solo la loro produzione, ma anche – e forse soprattutto – il loro smaltimento. Al momento, la soluzione più diffusa consiste nel donare una «seconda vita» alle batterie, che – una volta esaurite – possono diventare accumulatori di energia. In Italia, per esempio, EnelX ha lanciato il progetto Pioneer, che prevede l’utilizzo di batterie esauste per accumulare l’energia di un impianto fotovoltaico che alimenta l’aeroporto di Fiumicino, a Roma. «Ci sono tanti esempi sia in Cina sia in Europa», conferma Abbotto. «Anche dopo questa “seconda vita”, però, è importante non buttare la batteria in discarica ma riciclarla». Perché questo avvenga, però, occorre ancora un po’ di lavoro. L’Ue ha lanciato alcuni progetti, tra cui Acrobat, per trovare nuovi metodi più efficienti del riciclo di batterie. Seppur promettenti, le ricerche sono ancora in corso d’opera.

E i carburanti alternativi?

Non tutti gli esperti sono d’accordo con la decisione dell’Unione Europea di puntare tutto sull’elettrico. C’è anche chi, come Tommaso Lucchini, professore del dipartimento di Energia del Politecnico di Milano e ricercatore nel campo delle macchine a fluido, suggerisce un approccio multi-tecnologico. «La comunità scientifica ha pubblicato diverse lettere per esprimere perplessità sulla scelta strategica di puntare su una sola tecnologia», spiega Lucchini. Secondo il ricercatore, infatti, la svolta di Bruxelles rischia di bloccare le ricerche su due altre soluzioni promettenti: i biocarburanti e i carburanti sintetici. I primi si ottengono da scarti vegetali e rifiuti, mentre i secondi provengono da idrogeno pulito e CO2 sequestrata dall’atmosfera. «Questi tipi di carburante consentirebbero la decarbonizzazione progressiva del parco circolante, la possibilità di mantenere le tecnologie attuali e sfruttare la rete di rifornimento già esistente», precisa Lucchini.

Secondo alcuni studi, l’impatto di un’auto a motore alimentata con combustibili sintetici emetterebbe una quantità ancora inferiore di CO2 rispetto alle auto elettriche: circa 68 grammi per chilometro percorso. «La decarbonizzazione dei trasporti può avvenire solo con a un approccio onesto e scientifico, non dogmatico o ideologico», insiste Lucchini. Anche per gli e-fuels, però, la ricerca è promettente ma sta muovendo ancora i primi passi. Secondo la ong Transport & Environment, oggi i carburanti alternativi riuscirebbero a coprire solo una minima parte del parco veicoli europeo: circa il 2%. La richiesta di molti produttori e aziende che operano nel settore dei trasporti è la seguente: consentire l’utilizzo di carburanti alternativi per i mezzi di trasporto pesante, come camion, navi e aerei. Tutti veicoli per cui oggi l’elettrico – a differenza del trasporto leggero – non rappresenta la scelta più conveniente.

Foto di copertina: UNSPLASH / ANDREW ROBERTS

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