Dalle accuse a Confindustria Sicilia al sindaco di Melito, l’antimafia della mafia è una strategia che non tramonta

La bandiera della lotta per la legalità è spesso servita per nascondere affari torbidi o gli interessi dei boss. Da Provenzano ai giorni nostri

L’ultimo caso è stato del sindaco di Melito, Lorenzo Mottola, arrestato alcuni giorni fa, con l’accusa di voto di scambio politico mafioso. Ma i casi in cui la bandiera dell’antimafia è stata usata per nascondere rapporti poco chiari, quando non una vera e propria connivenza con i clan sono stati tanti, più o meno clamorosi e più o meno noti a livello nazionale. Era il 2011 quando il sindaco di Campobello di Mazara, città da cui proveniva ed è rimasto per buona parte della sua latitanza Matteo Messina Denaro, Ciro Caravà, poi scomparso, veniva arrestato nel corso di un’operazione antimafia dopo aver organizzato per anni manifestazioni antimafia ed essersi costituito parte civile in tanti processi contro il boss di Castelvetrano. Nel 2016 l’arresto di Antonello Montante, ex capo di Confindustria Sicilia, ancora indagato per concorso esterno e condannato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico per aver usato la patente di “legalità” in modo da sostenere le sue imprese e quelle amiche, dossierando e se possibile danneggiando gli avversari economici e politici.


I rapporti con la Camorra

Nel caso del sindaco di Melito, la capacità dei clan locali di influenzare l’amministrazione locale era talmente pervasiva che la camorra cambiava anche partito e candidato a seconda dell’elezione. Il clan Amato-Pagano, infatti aveva inizialmente sostenuto Nunzio Marrone (non indagato) al primo turno, per poi spostarsi su Mottola al ballottaggio. Decisivo il ruolo di Emilio Rostan, secondo gli inquirenti: l’imprenditore e padre della deputata di Forza Italia Michela, estranea all’indagine, è il centro dell’indagine. Stando alla ricostruzione fatta dalla dda di Napoli, Mottola avrebbe concordato con Rostan di stringere un patto con i clan locali in modo da vincere le elezioni escludendo in particolare la candidata Dominique Pellecchia, sostenuta da Pd, M5s e “Free Melito”. E in campagna elettorale ad entrambi sarebbe sembrata perfetta la patente di antimafia da usare per se e negare agli altri. Nelle intercettazioni prese da un trojan sul cellulare di Rostan, i due parlano persino di denunce da presentare contro l’avversario Marrone, che potrebbero risultare utili a suffragare la tesi.


Il racconto di quanto accaduto a pochi chilometri da Napoli sorprende ma non è una novità. Come raccontato in particolare nelle inchieste di Attilio Bolzoni (che a Montante ha dedicato un libro dall’evocativo titolo “Il Padrino dell’Antimafia“) ad utilizzare questa bandiera per nascondere affari più o meno loschi sono stati tanti e alcuni l’hanno fatto proprio per sotterrare gli interessi dei boss. Il caso più clamoroso è stato probabilmente quello di Francesco Campanella, presidente del consiglio comunale di Villabate, tanto vicino a Bernardo Provenzano da fornirgli nel 2001 la carta di identità falsa che gli permise di farsi curare a Marsiglia. Campanella organizzava frequentemente manifestazioni antimafia in città e quando è diventato collaboratore di giustizia ha raccontato la trovata più clamorosa: dare la cittadinanza onoraria a Raoul Bova che aveva impersonato in tv il “capitano Ultimo“, fondamentale per la cattura di Totò Riina. Una paraculata, dice lui stesso a verbale, ma vale la pena leggerlo con le sue parole: «Ebbi quest’idea del premio a Raul Bova. Io mi resi conto che forse stavamo andando oltre e chiesi a Mandalà (il boss di Villabate di cui era braccio destro ndr) il permesso e lui lo chiese a Provenzano. E Provenzano disse ok, perché valutava positivamente di mischiarsi in questo alone, in questa paraculata».

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