Scarsità di materie prime, l’esperto Alessandro Giraudo: «Ecco perché rischiamo lo stop delle forniture» – L’intervista

Il commento del docente universitario sul piano messo a punto da Bruxelles: «Arriva troppo tardi, abbiamo delegato l’estrazione alla Cina, che ora si trova in una posizione di monopolio»

La transizione ecologica sta portando con sé un cambio di paradigma, che costringe ogni settore della nostra economia – chi più, chi meno – a ripensare i propri piani di sviluppo e tenere in considerazione una nuova variabile: l’impatto sul clima e sull’ambiente. Una rivoluzione che, per forza di cose, non può che partire dalle materie prime. Nelle scorse settimane, la Commissione Europea ha delineato la propria strategia con il Critical Raw Materials Act. L’obiettivo: assicurarsi l’approvvigionamento delle «materie prime critiche», ovvero tutti quei materiali ritenuti indispensabili per la transizione energetica. Si va dal litio, utilizzato nelle batterie e negli accumulatori, alle terre rare, un gruppo di elementi chimici dagli usi più svariati. Sullo stesso fronte si è cominciato a muovere anche il governo italiano, che nei mesi scorsi ha avviato un tavolo di lavoro con gli esperti dell’Ispra. Secondo il ministero delle Imprese, nel sottosuolo ci sarebbero almeno 15 delle 34 materie prime critiche. «Finora abbiamo sempre delegato l’estrazione di questi materiali alla Cina, che ora si trova in una posizione di quasi monopolio», spiega Alessandro Giraudo, docente di Geopolitica delle materie prime a Parigi, Roma e Torino e autore del libro Quando il ferro costava più dell’oro (ADD editore). Secondo Giraudo, la strategia messa a punto da Bruxelles si muove nella giusta direzione, ma arriva con colpevole ritardo. «Servono investimenti immediati e molto costosi – precisa l’esperto –. Questa volta non basterà affidarsi ai privati, saranno gli Stati a dover intervenire».


Nel suo ultimo libro, scrive che «una crisi climatica è stata la causa del passaggio dall’Età del bronzo a quella del ferro». Ci sono analogie con le sfide che dobbiamo affrontare oggi?


«Fra il XIV e il XII secolo prima di Cristo, un cambiamento importante del clima ha colpito il nostro continente: siccità, carestie e violente ondate migratorie che hanno creato nuove condizioni economiche e politiche. Il passaggio dalla età del bronzo a quella del ferro è una pietra miliare nella storia umana, ma rappresenta anche il collasso di alcune civiltà e drammi umani terrificanti. La crisi climatica della nostra epoca è un fenomeno molto grave perché il film è stato accelerato. Vediamo flussi migratori densi: l’Onu stima che 281 milioni di persone hanno migrato nel 2020 per sfuggire a condizioni climatiche dure e anche a condizioni politiche difficili, favorite proprio dal clima. È possibile immaginare movimenti di popolazioni che abbandonano le regioni comprese fra i due tropici, a causa degli effetti sull’agricoltura e sulla disponibilità di acqua. La siccità delle coste del bacino mediterraneo potrebbe accompagnarsi a fenomeni simili anche nel bacino dei Caraibi, sulla costa sud-occidentale dell’America del Nord, nel bacino indiano, in quello indonesiano e nel mar di Cina. Non so se il mondo sia totalmente cosciente di tutto questo».

La transizione ecologica sta cambiando rapidamente le gerarchie delle materie prime più richieste. Quali sono i materiali che si riveleranno più indispensabili nei prossimi anni?

«Innanzitutto il litio, la cui domanda è destinata a salire di 40 volte. Se vogliamo accompagnare la rivoluzione energetica, abbiamo bisogno poi di due metalli essenziali: rame e nickel. Un’auto elettrica, per esempio, contiene almeno 50 chili di rame, molti di più di un’auto termica. Poi sono necessari i famosi metalli strategici e le terre rare. Nel telefonino ci sono circa 70 metalli: l’indio (per la luminosità degli schermi), l’oro (per alcuni contatti essenziali) e poi neodimio, cerio, lantanio, cobalto e tantissimi altri ancora. Anche tutte le tecnologie della nuova energia richiedono molti di questi metalli, che sono diventati essenziali. Attualmente il livello degli investimenti nel settore non è sufficiente per garantire un flusso regolare nel futuro. Perciò è possibile anticipare delle crisi che si manifesteranno: rialzi dei prezzi e carenza di alcuni materiali, come è già successo con i semiconduttori. Il mio non è un grido di allarme pessimista, ma la descrizione più oggettiva possibile della realtà».

Oggi la Cina controlla la quota più significativa del mercato globale di materie prime critiche. I piani per la transizione energetica avviati da Ue e Stati Uniti possono cambiare le carte in tavola?

«L’estrazione, la raffinazione e il trattamento di questi materiali è molto inquinante. Sono metalli “pesanti” che hanno un impatto negativo sul suolo, sull’acqua e sull’aria. Per esempio, per estrarre una tonnellata di litio sono necessari 1.900 litri di acqua. Inoltre, c’è un impatto difficile da misurare sulla salute dei minatori e degli uomini che lavorano nelle miniere. Il mondo ha delegato alla Cina questo “penoso” lavoro. Adesso osserviamo due reazioni: Pechino beneficia di una posizione di quasi monopolio, ma paga un prezzo troppo caro – in chiave ecologica – per questa posizione. Il resto del mondo, invece, si è reso conto che non è strategicamente saggio dipendere da un solo fornitore. Ed è qui che nascono le reazioni, arrivate in ritardo, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea».

Quindi è ancora possibile cambiare questi equilibri o è troppo tardi?

«È ancora possibile, ma a tre condizioni. La prima è di carattere finanziario: sono necessari investimenti immediati molto costosi e voluminosi, che però presentano dei rischi. La seconda è il tempo: possiamo salire su un treno pendolare o su una Frecciarossa, ma ad oggi la seconda scelta è obbligatoria. La terza condizione è politico-sociale: si sta diffondendo la filosofia del NIMBY (Not In My BackYard), che renderà necessario fare degli sforzi per compensare  le persone danneggiate dal fatto che una miniera sia aperta nella loro regione. Ma adesso si stanno sviluppando anche altre due filosofie. La prima è BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone), per indicare che non bisogna assolutamente costruire nessun centro di questo tipo accanto a nessuno e in nessun posto. La seconda è l’idea CAVE (Citizens Against Virtually Everything): i cittadini virtualmente contro qualsiasi cosa».

Il governo italiano ha annunciato l’apertura di un tavolo di lavoro per la ricerca e l’estrazione di materie prime critiche anche in Italia. Che potenzialità ha il nostro Paese?

«In Italia esistono giacimenti in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana, Lazio, Sardegna: ci sono circa 3mila siti abbandonati. L’Italia dispone di alcuni giacimenti di materie prime strategiche ma sul nostro territorio non c’è di tutto. Possiamo iniziare a sviluppare questi siti, ma ci vogliono capitali pronti ad assumere il rischio e, soprattutto, esistono Paesi che hanno giacimenti molto più ricchi e facili da sfruttare. Di conseguenza, spesso i nostri minerali non sono competitivi. È necessario correggere queste “ingiustizie geologiche” con soluzioni politiche per rendere attraenti gli investimenti».

Cos’altro può fare l’Italia per ridurre la dipendenza dall’estero?

«Dobbiamo iniziare a formare, a partire dalle scuole e dalle università, gli uomini e le donne capaci di partecipare a questo progetto. E su questo l’Italia è in ritardo, anche per il fatto che ormai non abbiamo più miniere. Inoltre, è essenziale pensare al riciclo. Lo ripeto: ogni telefonino è una miniera. Ma quante imprese in Italia oggi riciclano questi materiali? Nel mondo questa attività rappresenta attualmente l’1% del Pil mondiale e dovrebbe salire al 5% entro il 2050. E se iniziassimo ad accelerare anche in Italia?».

Come giudica la strategia europea svelata nelle scorse settimane con il Critical Raw Materials Act?

«È una buona idea, ma chiudiamo la porta della stalla dopo che le mucche sono già scappate. In altre parole, il progetto è molto interessante ma arriva in ritardo. Gli Stati Uniti avevano un programma di questo tipo già negli anni ’70, che poi si è afflosciato a causa di un’abbondanza dell’offerta di materie prime. È interessante l’articolazione del programma, che comprende l’estrazione, il trattamento-lavorazione e il riciclaggio. Mi auguro che non sia solamente una lista di buone intenzioni e che parteciperemo tutti quanti alle sue esequie».

Lo scambio e il commercio di materie prime è storicamente legato a guerre, migrazioni e tratte di esseri umani. Come si può gestire questa nuova «corsa alle materie prime critiche», soprattutto in Africa, senza sfociare in una nuova forma di colonialismo?

«L’Africa è una vera cornucopia. Ad oggi osserviamo una crescente presenza di cinesi, russi e un progressivo abbandono europeo del continente. Mi riferisco al Gruppo Bolloré, che ha ceduto i suoi porti in Africa, e a Bnp che ha deciso di abbandonare dove possibile il continente. Gli Americani, dopo il colpaccio dell’uranio proveniente dall’ex Congo Belga per produrre la prima bomba atomica sganciata su Hiroshima, hanno quasi abbandonato l’Africa. Oggi però gli Usa sono autosufficienti e, di conseguenza, sempre meno interessati al continente africano. Tutto questo è neocolonialismo? Sì, ma non se mettiamo in campo un impegno concreto per aiutare quei Paesi nelle infrastrutture, nell’educazione o nella sanità. Penso che l’idea di Enrico Mattei potrebbe essere ripresa».

Il petrolio è stato motivo di guerre e scontri geopolitici. È plausibile che possa accadere lo stesso anche per le materie prime critiche?

«L’equazione petrolio=guerra è drammaticamente evidente. Gli esempi, in questo senso, si sprecano. Certamente potrebbe accadere lo stesso anche per le materie prime strategiche, ma la risposta va modulata. Queste materie sono relativamente abbondanti e la loro distribuzione è sparpagliata sulla Terra. Quindi forse la risposta non è così automatica. Se numerosi Paesi iniziano a cercare queste materie prime sotto i loro piedi, è ancora possibile evitare pericolose concentrazioni geografiche».

Oltre ai diritti umani, c’è la questione ambientale. Siamo già in grado di estrarre queste materie prime riducendo al minimo le emissioni?

«Questi materiali sono inquinanti, quindi è difficile realizzare operazioni “alla Biancaneve”. La tecnologia però ci può dare una mano. Siamo soltanto all’inizio della ricerca diffusa nel settore dell’estrazione, lavorazione e riciclaggio. Se la pressione sociale sale, è possibile pensare a importanti investimenti nella ricerca che favoriscano la lotta contro l’inquinamento derivante da queste materie prime. Ma, ancora un volta, è necessario mettere sul tavolo miliardi di euro. Una frangia del capitale privato internazionale può essere interessata, ma probabilmente è necessario immaginare la partecipazione anche degli Stati o di programmi intergovernativi».

Credits foto: Reinhard Jahn | Chuquicamata, la miniera di rame a cielo aperto più grande al mondo

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