Dal colpo di Stato del 2019 alla guerra di potere tra i due generali. Cosa sta succedendo in Sudan e perché ci riguarda

Lo scontro tra l’esercito ordinario, guidato dal generale al-Burhan e i paramilitari del suo vice Dagalo: dove nasce la crisi che costringe i Paesi occidentali alle evacuazioni

A un anno e mezzo esatto dal colpo di stato del 2021, Il Sudan è ripiombato nel caos. Sin da allora, il Sudan è governato da un consiglio di generali, due dei quali sono al centro della contesa di potere riesplosa in questi ultimi giorni. Una disputa interna che, dopo settimane di tensione, è esplosa con gli scontri di sabato 15 aprile 2023, causando la morte di almeno 25 persone e oltre 180 feriti. A contendersi il potere politico nel Paese africano ci sono infatti due fazioni e rispettivi generali: il generale e presidente del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan e l’esercito del Paese, e il suo vicepresidente, Mohamed Hamdan Dagalo, noto ai più come Hemedti, che guida invece i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf, Rapid Support Forces). Gli scontri tra le due fazioni inizialmente si sono concentrati nella sola capitale Khartoum e successivamente si sono estesi anche in altre città del Sudan.


Scontro per il potere

Per capire le ragioni dello scontro, è necessario fare un passo indietro nella storia recente del Sudan. Nell’ottobre 2019, dopo 30 anni di governo, il generale Omar al-Bashir, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, venne deposto con un golpe. A capo delle forze militari che spinsero alle dimissioni al-Bashir vi erano sia il generale Al-Burhan sia Dagalo, che diedero vita all’alleanza militare del Consiglio Sovrano. Dopo la caduta dell’ex presidente, i due generali instaurarono un governo militare temporaneo che, nel corso degli anni, avrebbe dovuto portare a elezioni democratiche. Tuttavia nel dicembre 2022 la spartizione del potere tra i due generali inizia a diventare precaria. L’esercito governativo guidato dal presidente al-Burhan aveva dato il proprio parere positivo alla ripresa del processo di democratizzazione del Paese, anche alla luce della promessa di ricevere nuovi aiuti economici da parte della comunità internazionale. Tra le condizioni alle basi dell’accordo, però, era presente una clausola che ha fatto crescere le divergenze fino allo scontro aperto tra le due parti. Il punto chiave, infatti, riguarda la richiesta di integrazione nell’arco di due anni di 100.000 uomini che fanno parte delle forze paramilitari Rsf nell’esercito ordinario del Paese, per creare un corpo militare unitario. Ma il generale Dagalo, che guida le Rsf, ha rifiutato, sostenendo che il processo di integrazione dei due corpi militari richiede almeno 10 anni, oltre alla decisione su chi avrebbe guidato l’esercito unico del Sudan. In sostanza chi, tra il presidente al-Bashir e il suo vice Dagalo, avrebbe guidato l’esercito e dunque il Sudan.


L’escalation tra l’esercito ordinario e le Rsf

Ma come si è arrivati, di fatto, all’esplosione dello scontro tra le due forze militari e quelle paramilitari? Nelle scorse settimane, i membri delle forze delle Rsf sono stati ridistribuiti in tutto il Sudan, facendo scattare l’allarme nell’esercito “ordinario” del Sudan. Da quel momento in poi si sono susseguite tensioni crescenti tra le due parti. Deflagrate infine in battaglia aperta. E malgrado il numero di vittime civili causato dai combattimenti tra le due fazioni, nessuna delle due parti – al momento – ha voluto negoziare una tregua e dei colloqui per riportare uno stato di non belligeranza nel paese. Un’unica pausa nei combattimenti è stata fissata per per consentire alle persone, tra cui centinaia di cittadini non sudanesi, inclusi italiani, di abbandonare il Paese.

Cosa sono le Rsf

I paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf, Rapid Support Forces) guidate dal generale Dagalo sono state istituzionalizzate nel 2017. Di fatto, rappresentano l’evoluzione dei “janjaweed”, i “diavoli a cavallo” che combatterono a fianco dell’ex presidente Omar al-Bashir per reprimere le ribellioni nel Darfur nei primi anni 2000. Il gruppo delle Rsf è stato accusato dai giudici della Corte Penale Internazionale di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, per la loro repressione in Darfur. Malgrado fosse un alleato di lunga data dell’ex presidente al-Bashir, il generale Dagalo ha preso parte assieme all’attuale presidente al-Burhan al golpe del 2019. Negli ultimi mesi, come rilevato da diversi analisti, le Rapid Support Forces sono state più volte ritenute vicine ai mercenari del gruppo Wagner, i mercenari filorussi che combattono oggi contro l’Ucraina.

Le richieste delle due fazioni

Il nodo sul mancato esercito unico tra i due generali ha di fatto messo nuovamente in stallo il processo di democratizzazione del paese. Da un lato l’attuale presidente al-Burhan ha assicurato che si dimetterà e lascerà il potere solo quando verrà eletto un nuovo governo mediante elezioni. Dall’altro il suo vice Dagalo, che recentemente ha dichiarato che il golpe del 2019 è stato un errore, ha rifiutato l’integrazione delle Rsf nell’esercito unico del Sudan. In qualsiasi caso, da ambedue i lati, tra i vertici militari e relativi sostenitori il timore è lo stesso: cosa succederebbe se dovessero perdere il loro potere, l’influenza e le ricchezze acquisite qualora il Sudan dovesse andare a elezioni democratiche?

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