Professione e genere, così l’utilizzo del femminile penalizza (ancora) il ruolo – Il caso “avvocata”

Un’indagine della Fondazione Bruno Kessler conferma il pregiudizio: una donna che esercita la professione legale esprime maggiore autorevolezza e fiducia se si fa chiamare “avvocato” piuttosto che “avvocata”

È successo anche a me: fino a qualche anno fa mi facevo chiamare avvocato. Il che, però, non era coerente con il mio impegno per le pari opportunità nel mondo del lavoro e con il mio essere (non fare la) giuslavorista. Con gli anni, mi sono convinta che l’utilizzo del femminile per indicare la mia professione non soltanto mi avrebbe consentito di esprimere al meglio la mia personalità, ma sarebbe stato di esempio per le colleghe più giovani. E così, cerco di tenere comportamenti coerenti con il fatto che l’utilizzo del maschile “avvocato” per me non è la scelta migliore e considero qualificante – anche in termini di prestigio professionale – e non penalizzante, il femminile “avvocata”. Perché l’uso della corretta forma linguistica, anche in ambito professionale, non è una banalità e merita la giusta attenzione.


Sono convinta del fatto che declinare al femminile professioni, ruoli e funzioni sia un fondamentale passo verso il cambiamento culturale a favore delle pari opportunità, del riconoscimento delle diversità, del rispetto delle differenze di genere, con l’obiettivo di incrementare la quota dell’occupazione femminile e contribuire alla crescita economica del paese.


L’indagine

L’occasione per tornare a riflettere su questi argomenti viene dall’indagine condotta dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento per conto del Comitato Pari Opportunità presso l’Ordine degli Avvocati di Rovereto, dal titolo L’impatto della declinazione di genere del titolo professionale in avvocatura: un caso studio tra gli ordini professionali della provincia di Trento. L’obiettivo dell’inchiesta era quello di misurare l’eventuale penalità associata all’utilizzo del titolo professionale declinato al femminile. Dal punto di vista grammaticale la questione non si pone, la lingua italiana richiede la desinenza di genere e i titoli professionali vanno quindi declinati al femminile.

Tuttavia, nell’avvocatura, ove le donne rappresentano ormai la quota maggioritaria fra i professionisti più giovani, l’uso del termine al femminile per indicare una professionista è minoritario. Ed in effetti, secondo l’indagine e in base ai dati raccolti, nella provincia di Trento una donna che esercita la professione legale esprime maggiore autorevolezza e fiducia se si fa chiamare “avvocato” piuttosto che “avvocata”. Secondo il campione coinvolto nell’indagine il fatto di presentarsi come “avvocato” è più rassicurante di “avvocata”: un profilo professionale, a parità di caratteristiche per età, esperienza, studio associato, abilitazione al patrocinio in cassazione, ha ottenuto un punteggio inferiore se associato alla parola “avvocata” invece che “avvocato”.

La penalizzazione poi è più marcata per le professioniste più giovani, mentre si riduce per le professioniste con maggiore esperienza. Il che porta a pensare che si tratti di una forma di pregiudizio (o discriminazione) intersezionale, legata al genere, all’età e alla scelta di come declinare il titolo professionale e sta a significare che persistono ritrosie e pregiudizi oggettivamente ingiustificati.

Il quadro di riferimento

Secondo il Global Gender Gap del World Economic forum pubblicato a luglio 2022, l’Italia è al 63° posto nel mondo su 146 paesi in termini di parità di genere; sempre secondo il rapporto, ci vorranno 132 anni per raggiungere la parità a livello globale. In Italia, le donne rappresentano la maggioranza della popolazione, ma lavorano meno rispetto agli uomini: una donna su due non lavora. La media europea è pari quasi al 68%. Le donne italiane inoltre guadagnano meno dei colleghi uomini, a parità di mansioni e competenze, anche se il divario si è di recente ridotto.

Nell’impiego privato, cresce la percentuale delle donne manager, così come quella delle CEO. Nelle società quotate, grazie alla legge Golfo-Mosca, nel 2022 si registra una rappresentanza femminile – circa il 41%- fra le più alte in Europa. Secondo il rapporto Censis 2022 pubblicato ad aprile 2023, le avvocate numericamente sono quasi la maggioranza, mentre la maggior parte della componente femminile si trova nella fascia d’età under 50. Resta confermato un significativo gap a livello reddituale.

In altri paesi europei, quali Francia, Germania e Spagna, le colleghe non stanno meglio: come di recente emerso nel corso di un interessante convegno organizzato dal Comitato Pari Opportunità presso l’Ordine degli Avvocati di Milano, in questi paesi le donne in avvocatura rappresentano una quota minoritaria rispetto ai colleghi uomini e in più sono afflitte dagli stessi problemi delle colleghe italiane. Sono poche le donne titolari di studi, la maggior parte delle avvocate lavora in regime di mono-committenza, a favore di altri; le donne si dedicano a settori meno remunerativi del diritto; hanno una maggiore difficoltà nel farsi pagare e hanno una considerazione per il lavoro che svolgono inferiore a quella dei colleghi uomini; faticano a conciliare la professione con la vita familiare.

La parità di genere è uno dei 17 obiettivi fissati dall’Onu per lo sviluppo sostenibile ed è il focus della Missione n. 5 del PNRR italiano che definisce le linee guida del sistema di gestione per la parità di genere. Per realizzare questo obiettivo è necessario però un profondo mutamento. Come spesso è accaduto e continuamente accade, il cambiamento può iniziare prima dal basso per poi essere preso in esame dal legislatore, che fa proprie le istanze della società civile. È un processo non scontato e implica uno sforzo che vede tutti impegnati a sovvertire il generale modo di pensare e di agire, anche a partire dal linguaggio utilizzato.

In conclusione, e tornando alla ricerca che ha dato spunto per queste considerazioni, un uso diffuso della declinazione di genere del titolo professionale potrebbe avere la conseguenza di eliminare gli effetti negativi messi in evidenza dallo studio, per ottenere questo risultato sono sicuramente importanti i comportamenti individuali, ma in termini di impatto lo sarebbero di più gli eventuali interventi da parte degli ordini professionali.

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