«Il mio taglio delle tasse è più grosso del tuo». Chi ha ragione fra Meloni e Renzi? Nessuno dei due. Ecco perché – Il video

Nello scontro su chi ha ragione sul taglio di tasse e cuneo fiscale, la risposta deluderà i commentatori

Giorgia Meloni ha definito in un video «il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni» quella riduzione del cuneo fiscale contenuta nel decreto legge del primo maggio. E subito dopo avversari politici- iniziando da Matteo Renzi e commentatori economici le hanno tirato le orecchie sostenendo che l’aveva sparata un po’ grossa, perché ben di più avevano fatto altri governi come appunto quello di Renzi o più recentemente quello di Mario Draghi. Ma chi delle due fazioni ha ragione?


La risposta che Open è in grado di dare deluderà tutti: nessuno dei due fronti ha davvero ragione, e quindi entrambi hanno torto. Cito ma non considero le sottigliezze tecniche e contabili: la Meloni non ha tagliato le tasse sul lavoro, ma i contributi previdenziali sul lavoro che sono un’altra cosa. Anche Renzi con i suoi 80 euro non tagliò tasse, ma sussidiò una parte dei lavoratori facendo pagare allo Stato quegli 80 euro che infatti risultarono un aumento della spesa pubblica (contabilmente come il reddito di cittadinanza che lui vede come fosse fumo negli occhi). Non dicono la verità quindi né la Meloni né Renzi, ma è una obiezione formale, perché nella sostanza chi ricevette gli 80 euro di Renzi e oggi il taglio del cuneo fiscale della Meloni si trova più soldi in busta paga e non sta tanto a sottilizzare sul come e sul perché. Li ha.


Nella sostanza gli 80 euro di Renzi costarono allo Stato circa 9 miliardi di euro l’anno. Fino al 2023 quello è stato il provvedimento che più ha fatto lievitare le buste paga di chi ne ha beneficiato. Anche Draghi ha ridotto il cuneo e fatto sconti fiscali però per un importo minore: poco più di 7 miliardi di euro. Questa cifra è assai simile a quella del più grande sconto fiscale fatto da uno dei governi di Silvio Berlusconi: fu con la finanziaria 2003 che mise in campo un taglio di 5,2 miliardi di euro dell’epoca su Irpef, Irpeg e Irap. Rivalutandoli al 2023 valevano 7,8 miliardi di euro di oggi.

Nel decreto Meloni il taglio dei contributi previdenziali vale 4,064 miliardi di euro, e quindi sembra assai inferiore. La cifra però non è confrontabile con i 9 miliardi di Renzi o i 7 miliardi di euro di Draghi, perché questa misura opera non su 12, ma su 6 mesi: dal primo luglio al 31 dicembre 2023. Il suo valore teorico su base annua raffrontabile a quello degli altri è dunque il doppio: 8,128 miliardi di euro. Superiore all’intervento di Draghi, ma inferiore a quello di Renzi.

La Meloni però dal primo gennaio aveva già tagliato di due punti i contributi previdenziali riducendo quindi il cuneo fiscale e contributivo. Sul 2023 quindi la sua manovra di riduzione vale 9,064 miliardi di euro. Alla pari con gli 80 euro di Renzi e superiore alle manovre di Draghi e Berlusconi.

Solo se i due successivi tagli fatti fossero validi su un anno intero, e quindi venissero prorogati per tutto il 2024, la Meloni avrebbe ragione a rivendicare il suo primato di riduzione della pressione fiscale e contributiva. In quel caso infatti ai 5 miliardi bisognerebbe sommare su tutto l’anno gli 8,128 miliardi del taglio del primo maggio che tanto varrebbe su base annua. In tutto farebbero 13,128 miliardi e sarebbero sì «il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni».

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