La storia di Monica Zanetti, la prima donna a diventare tecnico della Ferrari: «All’inizio erano scettici, ma si sono dovuti ricredere»

Negli anni ’70 la maranellese doc cominciò dalla catena di montaggio, fino a diventare una dei migliori meccanici della Rossa di Maranello

«Dovevo andare in meccanica ma mi mandano in carrozzeria per un’urgenza. Mi mettono alle porte: ero l’unica donna, le altre erano in amministrazione, in tappezzeria a cucire o alla pulizia delle macchine». Così Monica Zanetti ricorda il febbraio del 1979, quando iniziò a lavorare tra i meccanici e i carrozzieri della Ferrari. Non sapeva che 45 anni dopo, per lei sarebbe arrivato il prestigioso premio dell’automobilismo internazionale “The Helene Award” di cui è stata insignita a Los Angeles a ottobre. Lady F40, così è soprannominata la maranellese doc, ora 60enne, racconta al Messaggero cos’ha significato per lei diventare la prima donna a fare parte del team Ferrari. Un’avventura iniziata per competizione: «Cercavano 3 ragazzi, tra cui una donna: alla Porche e Mercedes cominciavano ad avere donne meccanici e non volevano essere da meno». 


La nascita della passione

La passione per le auto, e per la rossa, però, era nata molto prima: «Da piccolina a casa mia ogni giorno transitavano meccanici della Ferrari, a cominciare da mio zio. Penso avessi 7 o 8 anni quando per la prima volta sono stata a Modena a vedere un circuito e ad osservare le macchine. In quel momento ho sentito qualcosa di particolare, di unico. Ancora adesso mi viene la pelle d’oca se ci ripenso», racconta Zanetti come se parlasse ai suoi nipoti. Un percorso non facile in un modo dominato dagli uomini: «Io dicevo: voglio lavorare con le automobili. A tutti mi rispondevano: per una donna è impossibile, puoi aspirare solo alla segreteria o in amministrazione. Non mi interessava stare in ufficio, ma se fosse stato l’unico modo per entrare, avrei accettato persino quello».


L’unica donna in un mondo di uomini

Zanetti racconta di essersi sentita benvoluta – «sono stata accolta a braccia aperte e mi hanno insegnato il loro mondo, devo tanto a questi uomini» – ma non subito: «All’inizio erano scettici, mi avevano preso sotto gamba. Tra loro commentavano: “Questa fa la fine delle altre”. Non capivano che il loro atteggiamento mi caricava, dentro di me mi ripetevo: “Potete fare quello che volete ma io non cedo”». Carica che ha dato i suoi frutti: «Mi sono messa sotto con impegno e determinazione. Era dura visto che non ti spiegavano niente, senza trascurare che per svolgere determinati compiti serve una certa prestanza fisica, ma volevo farcela e questa è stata la mia forza. Se per imparare una stazione ci si impiegava di media un mese, io la sapevo completare dopo tre giorni».

«Oggi è più difficile»

Quelle delle auto era un mondo che negli anni Settanta non era pronto ad accogliere entrambi i sessi. «Non esisteva il bagno per le donne. Non avevo problemi ad andare in quello degli uomini, l’importante era che non entrassero: mettevo fuori qualcuno a fare la guardia», ricorda Zanetti, secondo la quale troppo poco è cambiato in oltre quarant’anni. Ora ha la sua Scuderia Belle Epoque. Tutta al femminile con la socia Gemma Provenzano: «Sono la stessa, amo sempre quello che faccio, anche se paradossalmente è più difficile e più dura: oggi mi accorgo ancora di più che è un mondo prettamente maschile».

La F40 ed Enzo Ferrari

Se oggi la chiamano Lady F40 c’è un motivo, che Zanetti racconta: «A 24 anni, era il 1987. Dell’F40 dovevo seguire il montaggio e l’assemblaggio delle parti di carrozzeria, interne ed esterne. La Ferrari F40 venne chiamata così perché nel 1987 ricorrevano i quarant’anni dalla prima macchina da corsa e fu l’ultima che vide in vita Enzo Ferrari, progettata dal Drake e dall’ingegnere Materazzi». Anni che la donna ricorda anche per la conoscenza di Enzo Ferrari i persona: «Quando apriva bocca, guai a fiatare. L’ho sempre chiamato il commendatore, ma qualche collega stretto lo chiamava ingegnere. La sua frase era: “Non si può descrivere la passione, la si può solo vivere”. Ebbene io ne sono la dimostrazione», conclude.

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