Otto mesi di proteste in Iran, Pegah Moshir Pour: «La disobbedienza continua dalle scuole ai mezzi pubblici» – L’intervista

L’attivista italo-iraniana per i diritti umani ripercorre con Open questi 8 mesi di proteste nel Paese: dalla morte di Mahsa Jîna Amini, alla (dura) repressione delle autorità, fino ai possibili risvolti futuri

Era il 16 settembre 2022 quando Mahsa Jîna Amini, una ventiduenne di origine curda, veniva arrestata dalla polizia morale e uccisa a Teheran per non aver indossato correttamente l’hijab. Da allora sono passati circa 8 mesi. «Molto intensi», dice a Open, Pegah Moshir Pour, attivista italo-iraniana per i diritti umani e in prima linea nella divulgazione di contenuti su quanto sta accadendo in Iran. Le proteste scoppiate dopo la morte della studentessa hanno coinvolto ampie fette della popolazione. Da tutte le regioni dell’Iran, donne e uomini di differenti classi sociali e diverse generazioni hanno dato voce a un ampio dissenso contro il regime della Repubblica islamica «che da 44 anni soffoca gli iraniani che adesso chiedono un cambiamento radicale», spiega l’attivista. Nonostante la dura repressioni da parte delle autorità con condanne a morte comminate con l’accusa di moharebeh (inimicizia contro dio), aggressioni, arresti, avvelenamenti nella scuole, controllo di Internet e con l’acquisto di telecamere di sorveglianza per identificare le donne che violano le leggi sull’hijab, in Iran si continua a fare disobbedienza di ogni tipo. Ai cortei nelle strade si sono aggiunte proteste attuate con forme differenti. «Non presentarsi al lavoro – racconta Moshir Pour –  scioperare e prendere mezzi pubblici senza indossare il velo sono alcune delle modalità attraverso cui gli iraniani ancora oggi combattono contro l’oppressione delle libertà personali e dei diritti civili». Chi protesta vuole la caduta del regime e chiede un cambio di struttura politica mediante elezioni democratiche. Ma a che punto è la Rivoluzione in Iran dopo 8 mesi di proteste? Il regime sta colpendo le studentesse con gli avvelenamenti? E in questo contesto, l’Occidente, compresa l’Unione europea, dovrebbe fare di più?


Dopo otto mesi a che punto è la Rivoluzione in Iran?


«La rivoluzione Mahsa Jîna Amini, meglio conosciuta come “Donna, vita e libertà” è a un punto molto delicato: la gente continua a essere arrestata, intimorita in ogni modo e uccisa. Ma nonostante le intimidazioni e la repressione da parte del regime iraniano, il popolo non tonerà indietro. Anzi, andrà avanti. Nel Paese c’è, infatti, una continua disobbedienza civile: vediamo, ad esempio, sempre più immagini di donne che non portano il velo proprio perché simbolo di oppressione. Ma l’hijab non ha niente a che fare con la religione. Il velo è stato imposto da Khomeini nel ’79 per contrapporre anche simbolicamente la sua rivoluzione all’occidentalizzazione voluta e messa in atto dallo Scià. Ma oltre ai cortei in strada, si protesta in altri modi. Per esempio, non andando a lavorare, utilizzando mezzi pubblici senza indossare il velo. Ci sono poi tantissimi lavoratori della petrolchimica che scioperano quasi tutti i giorni per le condizioni disumane e gli stipendi troppo bassi. E si protesta pure nelle scuole, dove i ragazzi continuano a resistere alle intimidazioni da parte dei dirigenti. Gli slogan sono chiari, nessuno vuole il regime della repubblica islamica».

Le autorità iraniane hanno represso le proteste anche con le esecuzioni capitali. Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi sono stati giustiziati proprio ieri. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, da 314 nel 2021 si è passati a 576 nel 2022, a causa della repressione sulle rivolte scoppiate in autunno. Nonostante tutto, gli iraniani non hanno smesso di scendere in strada. I giovani e le giovani non hanno paura di un regime che reprime, tortura e uccide?

«L’Iran purtroppo è da sempre tra i primi posti nella classifica dei Paesi che condannano a morte, in particolare attraverso le impiccagioni, i dissidenti. Ma non solo loro: le esecuzioni riguardano anche persone ritenute pericolose, ma ci sono anche gli intellettuali, tante persone che potevano essere il futuro democratico dell’Iran. E, in più, a venire condannati a morte sono anche gli omosessuali perché l’omosessualità non è riconosciuta dal regime. E i giovani purtroppo lo sanno che da 44 anni a questa parte c’è questa dittatura che porta alla morte. Ma sanno anche che senza il sacrificio, senza la perseveranza e la resistenza non si potrà arrivare alla libertà. Certo, hanno paura ma la loro paura si è trasformata in grande coraggio che hanno saputo riversare bene nelle strade e pure sui social. Quindi dobbiamo continuare a sostenere e a essere la voce di questi ragazzi e di queste ragazze perché in questo momento il regime continua ad essere ancora lì, solido».

In questi mesi il regime ha cercato di riportare l’ordine nel Paese anche mediante alcune (presunte) “concessioni”. L’abolizione della polizia morale, prima. Un referendum per modificare la legge sull’obbligo del velo per le donne e infine un’amnistia concessa dalla guida suprema Khamenei a centinaia di migliaia di prigionieri, tra cui alcuni manifestanti. Cosa è accaduto?

«Quello che dichiara il regime, la stampa e la tv, che sono controllate dal regime, non ha basi forti di credibilità. Gli attivisti sul posto, ad esempio, stanno raccontando come il regima abbia proposto per placare un po’ gli animi un referendum per far scegliere alle donne e agli uomini se mantenere o meno l’obbligatorietà dell’hijab. Naturalmente si tratta di una mossa per mettere a tacere la sottrazione. Le donne lo hanno capito e hanno risposto sui social che non si faranno comprare da questo misero referendum e che continueranno a combattere perché l’obiettivo non è il velo islamico, l’obiettivo è far cadere l’attuale regime per poter avere la possibilità di decidere legittimamente e democraticamente del proprio futuro».

Nell’ultimo periodo ci sono stati migliaia di casi di avvelenamento nelle scuole femminili. Secondo alcuni attivisti si tratterebbe di una sorta di “vendetta” da parte del regime contro le studentesse che hanno preso parte alle proteste. Ma il ministero dell’Interno ha annunciato di aver arrestato più di 100 persone. Il regime sta colpendo le studentesse? Qual è la motivazione dietro questi avvelenamenti?

«Si dice che queste persone siano state arrestate dopo gli avvelenamenti nelle scuole, ma è un po’ strano che non si sappia più nulla. Quando la guida suprema Ali Khamenei, durante uno dei suoi discorsi, ha espresso indignazione verso queste ragazze che all’interno delle scuole bruciavano la sua foto, ha detto che avrebbero pagato, che le loro azioni non sarebbero dovute passare impunite. Beh’ qualcuno ha probabilmente espresso il suo desiderio. Tant’è che queste stesse persone, responsabili degli avvelenamenti, non sono stati fermati neppure dai dirigenti stessi degli istituti scolastici. Sappiamo per certo, i video lo testimoniano, di genitori che all’ingresso delle scuole chiedevano di poter entrare per ritirare le proprie figlie e i dirigenti scolastici si opponevano. Quindi è un po’ difficile accettare la narrazione del regime. Non penso siano state pilotate, ma piuttosto credo che queste persone abbiano espresso il desiderio della guida suprema, per la fedeltà che hanno nei suoi confronti».

L’Occidente e l’Ue potrebbero fare di più per sostenere le persone in Iran?

«L’Occidente è la chiave nell’andamento di questa rivoluzione. Ha tuttora legami economici e politici con le persone legate al regime, tra cui anche i guardiani della rivoluzione islamica che il Consiglio europeo sta cercando di mettere nella lista dei terroristi. Le guardie rivoluzionare sono più di 200 mila persone; hanno legami molto forti ovunque e sono quelli che sponsorizzano un certo disordine nel Medio Oriente. Quindi se riuscissero a far diventare l’Iran la prima repubblica democratica del Medio Oriente, ne beneficerebbe tutto il mondo».

Quale futuro possiamo immaginare per questa rivoluzione? Si arriverà presto a un cambiamento?

«Nonostante siano passati così tanti mesi, ancora è troppo presto per valutare il cambiamento. Come tutte le rivoluzioni, anche quella in Iran, ha bisogno di un suo corso storico. Ovviamente noi attivisti speriamo che il prima possibile possa avvenire questa caduta del regime per poi dare la possibilità agli iraniani di poter eleggere attraverso delle elezioni democratiche il o la propria leader».

Tu sei nata in Iran e a 9 anni ti sei trasferita con la tua famiglia in Basilicata. Cosa significa nascere sotto un regime?

«Nascere in Iran è sicuramente un privilegio. Io eredito da parte di mio padre e di mia madre una grande storia. Sono persone che hanno sempre fatto il loro nel sociale e nel mondo della cultura. Quindi sono profondamente orgogliosa e felice delle mie origini, della mia prima cultura che mi permette di spiegare al meglio agli italiani e agli europei in generale quello che sta succedendo in Iran. Se posso fare anche solo un minimo della mia parte in questa esistenza sulla terra, sono contenta che sia per una causa giusta e una missione che va portata avanti e assolutamente non va tenuta in disparte o nascosta». 

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