Basta latinorum negli atti giudiziari. La rivoluzione linguistica di Carlo Nordio

Il ministro della Giustizia ha inviato al Consiglio Nazionale Forense una bozza di regolamento che mira a delimitare strettamente il modo in cui gli atti andranno scritti. Le sanzioni? Possono aspettare

È in arrivo il «manuale» per scrivere gli atti giudiziari: qualche giorno fa il Ministro Nordio ha, infatti, mandato al Consiglio Nazionale Forense una bozza di regolamento che mira a uniformare il contenuto dei documenti redatti dai legali all’interno dei processi civili.


Un regolamento, la cui emanazione è prevista dalla riforma Cartabia, che non mancherà di scatenare polemiche, per la potenziale compressione dell’autonomia professionale che finirà per determinare; non si può nascondere, tuttavia, che esista un problema di scrittura.


Gli atti giudiziari abbondano di citazioni latine – non sempre appropriate – di espressioni arcaiche e, non di rado, sgrammaticate, per non parlare dell’eccessiva lunghezza e verbosità che spesso rende illeggibili questi testi.

Insomma, non si può negare che esista un problema di scrittura; la bozza di Regolamento del Ministero della Giustizia lo riconosce implicitamente, dichiarando nelle premesse l’intenzione di «favorire la chiarezza e sinteticità degli atti processuali».

Con parole chiare e semplici

Il primo dei criteri raccomandati dal Regolamento è proprio quello della sintesi: gli atti giudiziari (atti di citazione, ricorsi, comparse di risposta, memorie difensive, ecc.) devono contenere un’esposizione chiara e sintetica degli argomenti.

Ma il Regolamento non si ferma a questo invito: viene indicata anche la struttura formale che deve avere l’atto. A parte le indicazioni ovvie (i nomi delle parti, dell’ufficio cui ci si rivolge) viene richiesto l’inserimento delle parole chiave che individuano l’oggetto del giudizio, sino a un massimo di dieci. 

Per quanto riguarda l’esposizione dei fatti, c’è l’invito a esporli in maniera distinta e specifica, con capitoli separati e numerati: i documenti citati devono essere numerati e denominati in modo corrispondente al contenuto.

Per quanto riguarda la parte in diritto, viene richiesta l’indicazione delle norme di legge e dei precedenti giurisprudenziali che si invocano a proprio favore; le conclusioni devono, inoltre, essere formulate indicando in modo distinto ciascuna questione pregiudiziale, preliminare o di merito.

Il numero massimo di caratteri

L’invito alla sintesi viene accompagnato da un criterio oggettivo: gli atti più importanti (citazione, ricorso, comparsa di risposta, memoria difensiva) di norma non devono superare i 50 mila caratteri (circa 25 pagine di Word), gli altri atti non devono superare i 25 mila caratteri. Le note scritte in udienza non devono eccedere i 4 mila caratteri.

Non si calcolano entro questi limiti le parti formali dell’atto (indice, firma, ecc.).

Gli atti dovranno finire in appositi schemi informatici. Viene indicato anche lo stile di scrittura degli atti: il carattere 12, interlinea 1,5, margini orizzontali e verticali di 2,5 cm. Sono vietate le note, salvo quelle necessarie ad indicare gli estremi di un provvedimento, ed è vietata la trascrizione di massime o citazioni dottrinali.

Le questioni complesse

Il Regolamento riconosce che alcuni temi possono avere una maggiore complessità e prevede la possibilità di superare i limiti appena visti per questioni particolari; tuttavia, il legale deve spiegare le ragioni per cui ritiene necessario superare le soglie ordinarie.

E i giudici?

Il Regolamento si preoccupa degli atti scritti dagli avvocati ma dedica un breve cenno anche alle sentenze dei giudici. Per loro si ribadisce l’invito a redigere i provvedimenti «in modo chiaro e sintetico», nel rispetto dei criteri appena visti, anche se si specifica che questi valgono «in quanto compatibili».

Insomma, la chiarezza è un obbligo per i legali e un auspicio per i giudici: una disparità di trattamento che lascia aperto qualche dubbio.

Le sanzioni

Il Regolamento fissa dei criteri ma non specifica le sanzioni cui va incontro il legale che, in barba agli inviti alla sintesi e alla chiarezza, continui a redigere le sue orazioni senza rispettare i criteri appena visti. Anzi, nelle premesse dell’atto è chiaramente specificato che il mancato rispetto dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali «non comporta inammissibilità o invalidità dell’atto giudiziario». Una precisazione utile a spegnere gli allarmi circa l’eccessiva compressione dell’autonomia professionale: chi vorrà continuare a redigere atti di lunghezza sconfinata, al massimo rischierà un rimprovero o un’occhiataccia del Giudice.

Parlare chiaro è democrazia

Qualcuno si potrebbe chiedere: ma c’è davvero bisogno di intervenire sugli atti giudiziari? A chi fa male un eccesso di verbosità e complessità del linguaggio? La risposta è semplice: il linguaggio è una forma di controllo ed esercizio del potere. Usare termini arcaici, complicare inutilmente i concetti, rendere oscura la comprensione delle questioni sono tutte abitudini funzionali a rendere meno accessibili ai “profani” alcuni argomenti; una forma, appunto, di creazione e controllo di un potere. Il linguaggio chiaro e comprensibile consente a tutti di capire quello che accade e, in ultima analisi, rende più democratico l’accesso alla giustizia. 

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