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«La lotta per il clima è anche una battaglia di classi sociali. Ultima Generazione? Le loro proteste sono necessarie» – L’intervista ad Andrea Grieco

Le parole del divulgatore e attivista, ospite del prossimo incontro di Open Space: «Oggi comunicare la crisi climatica è più complesso»

«Se vogliamo realizzare la nostra ambizione, dobbiamo assicurarci che la politica climatica non lasci indietro nessuno». Sono passati più di tre anni da quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato per la prima volta il Green Deal. Un maxi-piano di investimenti che ha l’obiettivo di rivoluzionare ogni settore dell’economia: trasporti, produzione di energia, filiera alimentare e non solo. Molte di queste trasformazioni sono già avviate: basti pensare all’elettrificazione dei trasporti o all’attenzione sempre maggiore all’impronta ecologica di ciò che finisce sulle nostre tavole. Ora che la transizione sembra avviata, l’attenzione degli attivisti per il clima si è spostata soprattutto su una questione: la giustizia climatica. In altre parole: come ci si assicura che i costi della transizione ecologica non finiscano sulle spalle delle fasce più povere? «La lotta ai cambiamenti climatici è anche una battaglia di classi sociali», sottolinea Andrea Grieco, ospite domani 21 giugno dell’appuntamento sulla giustizia climatica del ciclo di incontri Open Space: le lotte che costruiscono il futuro (qui il link per partecipare all’evento di domani). Oltre alla sua attività da divulgatore e attivista, Grieco è anche Head of Impact di AWorld, la piattaforma scelta dalle Nazioni Unite per supportare la campagna ActNow contro i cambiamenti climatici.

Cosa si intende oggi per giustizia climatica?

«Giustizia climatica significa garantire diritti sia all’umano, e quindi a noi, sia al non-umano, e quindi al pianeta. È un concetto che si è evoluto nel tempo. Negli ultimi anni, si parla di giustizia climatica soprattutto come riparazione dei danni subiti per via del cambiamento climatico dai Paesi del Sud del mondo, che di base non incidono con il loro sviluppo sulla crisi climatica globale ma ne subiscono i peggiori effetti».

In che modo il tema dei cambiamenti climatici si intreccia con quello delle disuguaglianze?

«La conditio sine qua non per parlare di giustizia climatica è proprio la disuguaglianza sociale ed economica. Anche il cambiamento climatico, negli effetti che produce, è profondamente diseguale. Per questo oggi si discute di strumenti di riparazione dei danni subiti dai Paesi più vulnerabili. A pagare devono essere gli emettitori storici di CO2 e tutti quei Paesi che hanno sfruttato per decenni le risorse naturali senza pensare allo sviluppo delle altre popolazioni o a quello delle generazioni future».

La disuguaglianza non è solo tra Nord e Sud del mondo, ma anche tra le diverse classi sociali all’interno di un Paese. L’Italia e l’Europa stanno facendo abbastanza per tenere in considerazione anche l’aspetto sociale della transizione ecologica?

«Le grandi metropoli europee sono fortemente diseguali dal punto di vista climatico. Alcuni quartieri di Milano, per esempio, vivono una forte gentrificazione che è anche climatica: vaste aree di terreno che potrebbero diventare verdi e invece lasciano spazio a cemento e nuovi palazzi. Oggi purtroppo né l’Italia né le istituzioni europee tengono in dovuta considerazione l’aspetto di disuguaglianza sociale causata anche dal cambiamento climatico. La lotta per il clima è anche una battaglia di classi sociali».

Come si comunica oggi la crisi climatica?

«È diventato più complesso. Nonostante gli effetti di questa crisi siano arrivati anche a casa nostra, purtroppo sono cresciuti i negazionisti climatici. L’attacco a persone che fanno divulgazione su questi temi è sempre dietro l’angolo. Con il tempo, poi, tutte le aziende hanno capito che parlare di sostenibilità e cambiamento climatico è un must che non può più mancare nelle strategie di marketing. In alcuni casi, però, si tratta di semplice greenwashing. Arrivare alle persone è sempre difficile, ma io cerco di farlo partendo sempre dal dato di partenza. Quando devo comunicare un report scientifico o un evento meteorologico estremo, cerco di spiegarlo nel modo più semplice e accessibile possibile, come se stessi parlando con mia nonna. In fin dei conti le cose più importanti da capire sono due: a che punto siamo e quali sono le soluzioni».

Negli ultimi mesi anche le proteste per il clima hanno cambiato forma: dalle marce dei Fridays for Future si è passati alle azioni simboliche e di disobbedienza civile di Ultima Generazione. Cosa ne pensi?

«Quando gli attivisti di Ultima Generazione hanno iniziato le loro proteste nei musei e con i monumenti, il mio primo impatto è stato di grande dubbio. Si tratta di un approccio molto diverso alla protesta e forse rappresenta un’evoluzione dell’attivismo rispetto a come l’abbiamo conosciuto fino a pochi mesi fa. Poi mi sono confrontato con gli attivisti, ho fatto un bagno di realtà e ho capito che quello è un tipo di protesta dal quale oggi non si può prescindere. È un modo per attirare l’attenzione della classe politica e della società su tematiche che oggi devono essere normalizzate. Il centro del dibattito deve ricalibrarsi per tenere conto della nostra sopravvivenza e di quella del nostro pianeta. Aumentare la consapevolezza, anche con atti come quelli di Ultima Generazione, significa chiamare all’azione e pretendere di essere ascoltati dalle istituzioni e dalla società civile».

Riprese e montaggio di Vincenzo Monaco

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