La vicenda della prof licenziata dopo aver totalizzato circa 20 anni di assenze nel corsi dei suoi 24 anni di servizio mette in luce alcune macroscopiche disfunzioni del nostro sistema di tutela del lavoro.
Un sistema costruito sulla rigida segregazione tra chi sta dentro la “cittadella” del lavoro subordinato, che offre un sistema di tutele spesso obsolete e ridondanti, e chi sta fuori da quel recinto e deve ogni giorno guadagnarsi un’occasione di lavoro senza beneficiare di alcuna forma di garanzia. Dentro la “cittadella” del lavoro subordinato esiste un cumulo pressoché infinito di permessi, aspettative, congedi e assenze per malattia che consente di costruire, in maniera del tutto lecita, periodi lunghissimi di assenza dal lavoro. Un sistema costruito in maniera talmente disordinata da non avere una sanzione efficace per reprimere la condotta di una lavoratrice che non si presenta mai al lavoro.
Quando lo scarso rendimento non è motivo di licenziamento
La stessa vicenda della prof di Chioggia dimostra questa difficoltà nel sanzionare le condotte di quel tipo. La docente, infatti, dopo essere stata destituita dall’impiego, aveva vinto in primo grado la causa contro il provvedimento espulsivo, e nei successivi gradi di giudizio è stato possibile confermare la sua destituzione non tanto e non solo per via delle assenze, ma piuttosto per via di un giudizio negativo sui suoi metodi di insegnamento. Insomma, è stata licenziata perché – secondo i giudici – non insegnava in maniera corretta, non tanto perché è mancata troppo a lungo (nella sentenza c’è un ragionamento sulle assenze, ma questo viene fatto solo per spiegare che la valutazione negativa sulla prestazione non poteva abbracciare periodi più lunghi di quelli effettivamente considerati, in quanto la prof era stata spesso assente). Un diritto del lavoro nel quale ci si può assentare per venti anni dal lavoro (con brevi interruzioni) ha qualche problema di funzionamento. È lecito porsi qualche domanda sull’opportunità del cumulo di permessi, congedi e assenze, retribuite e no, che riconoscono i contratti collettivi, oppure bisogna stare alla larga da questioni come questa, che fanno solo perdere consensi?
Per non parlare della sostanziale impossibilità di combattere in modo efficace lo scarso rendimento. Nonostante la professoressa in questione sia stata licenziata per alcune carenze apparentemente clamorose, la procedura per intimare il licenziamento è stata lunga e laboriosa, e per confermare la decisione ci sono voluti ben tre gradi di giudizio, finiti con decisioni contrastanti. Inoltre, il provvedimento espulsivo è stato convalidato dalla Cassazione perché le lacune dell’insegnante sembravano molto gravi. Sarebbe stato possibile arrivare alla stessa decisione – licenziamento – di fronte a una “semplice” insufficienza nella prestazione? Abbiamo qualche dubbio, vista l’enorme e quasi insuperabile ostilità della giurisprudenza verso il concetto di “scarso rendimento” (non solo dei professori); come dimostra l’esperienza quotidiana, il docente e qualsiasi altro lavoratore che siano “soltanto” scarsi non sono, di fatto, licenziabili.
Il divario tra i lavoratori tutelati e le finte partite Iva
Queste contraddizioni acquistano un peso maggiore se si prova a pensare a cosa sarebbe accaduto alla prof se, invece di abitare dentro le comode e accoglienti mura della “cittadella” dei diritti, lei avesse lavorato nel settore privato, mediante un contratto flessibile (un normale rapporto a termine) o precario (una falsa partita iva, una cococo e affini). Probabilmente quella stessa docente già dopo le prime assenze avrebbe perso il lavoro, senza poter invocare alcuno strumento giuridico per riconquistarlo, così come la sua discutibile performance professionale sarebbe stata facilmente sanzionabile con il mancato rinnovo o l’interruzione del rapporto. Un destino che accomuna ogni giorno migliaia di lavoratori e lavoratrici che vivono al piano di sotto della “cittadella” delle tutele e che, pur svolgendo gli stessi lavori di chi sta al piano di sopra, devono fare i conti un’assoluta mancanza di standard minimi di tutela. Questi due mondi non sono semplicemente in contraddizione tra loro ma costituiscono anche due facce della stessa medaglia: tante, troppe volte si tenta di sfuggire all’eccesso di rigidità del lavoro tradizionale cercando delle soluzioni “cuscinetto” che assicurano una via d’uscita comoda e irresponsabile dai sistemi caratterizzati da troppe regole. Di fronte a questa evidente e intollerabile sperequazione forse nemmeno Trilussa, se fosse ancora in vita, avrebbe il coraggio di applicare la sua proverbiale “media del pollo” per dire che che, tenuto conto di quanto sono i lavoratori iper tutelati e quelli precari, abbiamo un mercato del lavoro equilibrato.
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