I documenti inediti su Emanuela Orlandi: lo zio Mario e la presunta molestia alla sorella Natalina

Il tg di La7 racconta di un messaggio del cardinal Casaroli a un sacerdote vicino alla famiglia. Si tratta di uno degli incartamenti di Diddi

Un servizio in esclusiva del Tg di La7 racconta un retroscena inedito sul caso di Emanuela Orlandi. Un messaggio di Agostino Casaroli che risale al settembre 1983, quando la cittadina vaticana era scomparsa da soli tre mesi, chiama in causa lo zio deceduto di Emanuela, Mario Meneguzzi. Nel pezzo di Flavia Filippi si narra di una missiva inviata per posta diplomatica da Casaroli a un sacerdote sudamericano mandato in Colombia da Giovanni Paolo II. Si tratta di un religioso che è stato a lungo consigliere spirituale e confessore della famiglia Orlandi. Casaroli gli chiede se è vero che in passato Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, gli ha rivelato di essere stata molestata sessualmente dallo zio Mario.


Le carte di Diddi

Il messaggio fa certamente parte dei documenti inviati dal Vaticano alla procura di Roma, che ha aperto di recente una nuova indagine. All’epoca il testo viaggia dalla Santa Sede a Bogotà. Il segretario di Stato dice che lo ha appreso da ambienti investigativi romani. La risposta del prete è precisa ed esplicita: «Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima». Natalina Orlandi ha parlato comunque di questi fatti in un interrogatorio davanti a un magistrato romano. I dettagli di questi impieghi sono stati ampliamente raccontati nella pubblicistica sul caso Orlandi. Meneguzzi era il gestore del bar interno di Montecitorio. Natalina Orlandi lavorava alla Camera come impiegata nell’ufficio legale da prima del 1983.


Chi era Mario Meneguzzi

Mario Meneguzzi, zio di Emanuela Orlandi, ha un ruolo importante nel primo periodo delle indagini sul sequestro di persona per «terrorismo internazionale». Ovvero la prima (e mai riscontrata) pista per spiegare il rapimento della ragazza. I figli di Ercole Orlandi e Maria Pezzano sono Natalina, Pietro, Federica, Emanuela e Maria Cristina. La sorella di Ercole con cui Mario era sposato si chiamava Lucia. I figli di entrambi si chiamano Monica e Pietro. Quando il 22 giugno del 1983 Emanuela Orlandi scompare, il fratello maggiore Pietro Orlandi e il cugino Pietro Meneguzzi la cercano a mezzanotte in moto per le vie di Roma e in particolar modo dalle parti del lungotevere. Il dettaglio è raccontato dallo stesso Pietro Orlandi nel documentario di Netflix.

Le telefonate

Successivamente lo zio decide di installarsi in casa Orlandi per rispondere alle telefonate di segnalazione, dopo la pubblicazione dei famosi manifesti in giro per Roma. È lui che risponde a Pierluigi e Mario, i primi due presunti telefonisti del caso. Lui è al telefono in particolare con Mario nella prima rudimentale registrazione e prova del caso. È lui che successivamente invia dai mass media messaggi ai rapitori ai quali chiede “prove precise” del possesso della ragazza, con domande le cui risposte precise non arriveranno mai. È sempre Mario Meneguzzi che con i media si attribuisce la scelta dell’avvocato Gennaro Egidio come controparte da sottoporre ai presunti rapitori. In realtà il conto del legale, a differenza di quello di Mirella Gregori, verrà sempre regolato dai servizi segreti italiani.

Il Sisde e Giulio Gangi

Sempre collegata alla famiglia Meneguzzi c’è l’entrata in scena di Giulio Gangi. L’allora giovane agente del Sisde, secondo quanto ha raccontato lui stesso, si era innamorato della figlia di Mario, Monica. L’aveva conosciuta a Torano di Borgorose, cittadina del reatino frequentata dagli Orlandi e dai Meneguzzi fino ai giorni nostri. Quindi, una volta saputo della scomparsa di Emanuela, si era presentato alla famiglia offrendosi di indagare. Nel servizio di La7 si racconta di quella volta che Meneguzzi si accorse, mentre era sul litorale di Santa Marinella, di essere pedinato da un’automobile. All’epoca a fargli scoprire che lo seguiva la polizia sperando in un contatto con i rapitori fu proprio Gangi. Attraverso la targa, risultata “coperta”.

L’identikit

Poi c’è la storia dell’identikit. Il Tg di La7 dice che i titolari dei due fascicoli d’indagine hanno fatto riferimento alla somiglianza tra Meneguzzi e l’identikit del vigile Sambuco e del poliziotto Bosco. Le testimonianze risalgono all’ottobre del 1985. Secondo alcuni sarebbero significative perché l’incontro, secondo i testimoni, sarebbe avvenuto prima dell’ingresso alla scuola di musica Ludovico Da Victoria. Precisamente, in corso del Rinascimento e poco prima delle 17. Dall’istituto che si trovava di fianco alla chiesa di Sant’Apollinare, secondo la testimonianza della sorella Federica, Emanuela chiamò successivamente per raccontarle della proposta di andare a distribuire volantini durante una sfilata di moda. È la cosiddetta pista Avon.

Fonte: Emanuela Orlandi Blog | Gli identikit di Sambuco e Bosco

Va ricordato che Margherita Gerunda, prima magistrata ad indagare sulla scomparsa della “Vatican Girl”, aveva puntato altre piste rispetto al rapimento: quelle su violenza sessuale e omicidio. Ma, come dirà successivamente, non si è mai occupata della cosiddetta pista Avon «perché nessuno me ne parlò». Aggiungendo anche altro: «Non credo inoltre che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria». Ma è soprattutto la logica a far scartare l’identikit: perché Meneguzzi avrebbe dovuto fermare per strada Emanuela Orlandi se era sua nipote? Che bisogno ne aveva?

La testimonianza di Meneguzzi al giudice Martella

Nel servizio si dice anche che si stanno ascoltando vecchi e nuovi testimoni. Di sicuro verrà quindi vagliata nuovamente la testimonianza dello stesso Meneguzzi. Il quale, come si racconta nel libro di Pino Nicotri “Il rapimento che non c’è”, si è presentato il 31 ottobre 1985 davanti al giudice istruttore Ilario Martella per dire che quel 22 giugno 1983 lui non era a Roma ma proprio a Torano. Era lì dal pomeriggio del giorno prima, ovvero martedì. In compagnia della figlia Monica e della cognata Anna Orlandi. Ovvero la seconda sorella di Ercole, che viveva in casa con gli Orlandi in Vaticano. Con loro c’era anche Ercole, sempre secondo la testimonianza di Meneguzzi.

La versione di Ercole Orlandi

Ercole Orlandi ha invece sempre spiegato che lui e la moglie Maria il giorno della scomparsa di Emanuela sono tornati a Roma nel tardo pomeriggio. Perché erano in visita a dei pareti a Fiumicino. Per questo motivo quando Emanuela chiama a casa dalla scuola di musica le risponde la sorella Federica, che non le passa la madre. Anche qui è il caso di ricordare che il procuratore di Roma Francesco Lo Voi annunciando la riapertura del caso aveva detto: «Dopo 40 anni non solo non è facile trovare elementi, ma nemmeno fare le pulci alle attività svolte dagli inquirenti dell’epoca perché ogni situazione, ogni indagine va contestualizzata. Non è da escludere che sarà coinvolta nuovamente la Procura di Roma, motivo per cui non posso parlarne». 

La reazione di Pietro Orlandi

Pietro Orlandi sul gruppo Facebook Petizione Emanuela dopo il servizio del tg di La7 scrive: «Oggi ho capito che sono delle carogne. Hanno deciso di scaricare tutto sulla famiglia, senza vergogna, senza vergogna mi fanno schifo». Il fratello di Emanuela, che aveva annunciato in precedenza il servizio sul tg di La7 nel gruppo, non è più intervenuto nella conversazione. All’agenzia AdnKronos però dice di essere «furioso» perché «vogliono scaricare le responsabilità sulla famiglia». Pietro Orlandi dice che la procura di Roma non ha chiamato mai né lui né sua sorella Natalina. Infine, auspica che la commissione d’inchiesta «parta e svergogni chi ci infanga». E aggiunge: «Chiederò un incontro a Papa Francesco. Hanno passato il limite come non mai. Con l’avvocato Sgrò sto organizzando per domani una conferenza stampa. Non possono scaricare le responsabilità di tutto su una famiglia… Non pensano ai parenti, ai figli? No, questa carognata non può passare così».

La pista parental-amicale

Come si vede quindi la circostanza della testimonianza di Natalina Orlandi alla procura di Roma su Mario Meneguzzi e il messaggio a Casaroli raccontano un retroscena inedito. Ma bisognerà valutare anche la testimonianza dello stesso Meneguzzi riguardo la giornata del 22 giugno 1983. È sicuro, perché lo hanno raccontato loro stessi, che nel pomeriggio del 23 giugno Meneguzzi è a fare il giro delle redazioni dei giornali romani per far pubblicare un appello. Quello che due giorni dopo verrà pubblicato. Meneguzzi farà anche in seguito indagini private con Gangi, tra cui quelle sulla Bmw della pista Avon alla Samocar. Le verifiche dei magistrati saranno molte e complicate. Ed è possibile che non approdino a molto dopo quarant’anni.

La scomparsa

Ma c’è da dire che mentre la pubblicistica sembra più appassionata alle fragili piste religiose, l’inchiesta della procura va quindi da tutt’altra parte. D’altro canto la ragazzina è scomparsa a Roma, tra piazza Navona e Campo de’ Fiori, in un giorno in cui era in programma un concerto punk reggae e in un luogo frequentato ora come allora da tantissime persone. È difficile portare via qualcuno contro la sua volontà in quelle condizioni. E la ragazza, dice la famiglia, non accettava certo passaggi dagli sconosciuti. Se è scomparsa in quel luogo e in quel modo, è accaduto perché ha seguito qualcuno di cui si fidava.

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