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Marina Berlusconi, il padre Silvio e le accuse di mafia: «Perseguitato anche dopo la morte»

17 Luglio 2023 - 04:19 Redazione
marina berlusconi silvio berlusconi accusa mafia
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La figlia lo difende sull'inchiesta di Firenze sulle stragi del 1993: ma davvero ha costruito Fininvest con i capitali mafiosi?

Marina Berlusconi dice che il padre Silvio è «perseguitato anche dopo la morte». E che dopo di lui la giustizia non è per nulla tornata alla normalità. La figlia dell’ex premier si riferisce all’inchiesta della procura di Firenze sui mandanti occulti delle stragi del 1993. Nella quale fino a poco tempo fa era indagato il padre. E ora sul registro è rimasto solo l’ex senatore Marcello Dell’Utri. La presidente di Mondadori si sfoga oggi in una lettera al Giornale dopo la notizia della perquisizione nei confronti dell’ex manager Publitalia. Che sarà interrogato il 18 luglio da Luca Tescaroli e Luca Turco, i pubblici ministeri che indagano sulle stragi di Milano, Firenze e Roma e sull’attentato non riuscito allo Stadio Olimpico. «Ha aspettato giusto un mese, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi. Con l’accusa più delirante, quella di mafiosità», dice Marina.

L’accusa di mafiosità

«Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai», aggiunge. Le accuse nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri sulle stragi del 1993 vanno avanti dal 1996. Un’altra indagine venne aperta nel 2011. Entrambe le precedenti hanno ricevuto l’archiviazione. La riapertura è dovuta ai fratelli Graviano. E più precisamente alle dichiarazioni di Giuseppe, che prima in Aula e poi in un memoriale ha raccontato di un legame tra Berlusconi e Cosa Nostra. Che però parte da una prospettiva di indagine diversa rispetto alle precedenti. Madre Natura ha raccontato dell’investimento di alcuni imprenditori palermitani (tra cui il nonno materno) nelle speculazioni immobiliari in Lombardia tra 1970 e 1980. Mentre il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza ha parlato di un incontro al bar Doney di via Veneto a Roma in cui Graviano gli parlò di un accordo di Cosa Nostra con Berlusconi e Dell’Utri. Subito dopo quell’incontro Graviano venne arrestato.

La giustizia

Marina dice che «la persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta». Aggiunge che quello su cui indagano i pm fiorentini è un «teorema strampalato». Che non sopravvivrà, come gli altri, al vaglio dei giudici. Ma intanto, sostiene, le carte dell’accusa saranno state pubblicate con l’effetto di macchiare la reputazione degli indagati. Secondo Marina così «l’avviso di garanzia serve così solo a garantire che l’indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell’inchiesta». Si tratta di «un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionati.

Fine pena: mai

Marina aggiunge che questa è «una condanna a un «fine pena mai» anche senza una prova, anche senza una sentenza, anche dopo la vita stessa. La scomparsa di mio padre non ha mutato nulla». Poi la domanda delle domande: «Ma davvero qualcuno può credere che Silvio Berlusconi abbia ordinato a Cosa Nostra di scatenare morte e distruzione per agevolare la sua discesa in campo del gennaio 1994? Ed è credibile, poi, che abbia costruito una delle principali imprese del Paese utilizzando capitali mafiosi?». La tesi dei magistrati è che le stragi del 1993, concepite e realizzare quando Totò Riina era in galera, siano servite a «preparare il campo» alla discesa in politica di Berlusconi. Per Marina invece sono la dimostrazione che la “Guerra dei Trent’anni” dei giudici non si è fermato con la morte dell’ex Cavaliere.

La civiltà giuridica

Infine, l’appello: «Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m’illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia «uguale per tutti». Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no».

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