Fecondazione assistita, la sentenza della Consulta: «L’uomo non può revocare il consenso ad avere un figlio»

La decisione per una coppia di separati dà legittimità alla norma sul congelamento degli embrioni

Quando l’embrione viene creato con la fecondazione assistita, se la madre lo desidera deve essere impiantato. Anche se il padre del futuro bambino è deciso a revocare il suo consenso. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza numero 161 del 2023. Il redattore è il giudice Luca Antonini. Che dà così legittimità all’articolo 6 comma 3 della legge 40 del 2004. Ovvero la norma che rende possibile, per effetto del congelamento degli embrioni, la richiesta dell’impianto non solo a distanza di tempo ma anche quando sia venuto meno l’originario progetto di coppia. Nel caso in oggetto i due avevano rinviato l’impianto per problemi di salute della donna.


La Legge 40/2004

Il comma 3 dell’articolo 6 della Legge 40/2004 recita: «La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni. La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo».


Il consenso irrevocabile

Ovvero, spiega oggi al Corriere della Sera la docente dell’università di Perugia Stefania Stefanelli, «prevede che prima di fare la pma uomo e donna firmino un consenso informato da cui dipende lo status di figlio del bambino che nascerà. Se un uomo consapevolmente ha deciso di intraprendere una procedura medica per avere un figlio non può più tirarsi indietro dalla responsabilità che ha assunto. Questa sentenza ribadisce che l’irrevocabilità del consenso è funzionale a “sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che (…) rileva ai fini del suo concepimento”. Ed è per questo che passano per legge 7 giorni tra la firma del consenso e la fecondazione: si dà al futuro padre il tempo di ripensarci», aggiunge la professoressa di diritto costituzionale. C’è da ricordare che la donna può invece revocarlo.

Il caso

Il caso che racconta oggi il quotidiano comincia con una coppia che non riesce ad avere figli. Marito e moglie si rivolgono a una clinica specializzata. Firmano il consenso e gli embrioni vengono creati. Poi la mamma ha qualche complicazione di salute. Si decide di congelare gli embrioni. Anche questo è consentito dalla legge. Passa il tempo e i due si separano. L’uomo revoca il suo consenso. Si finisce in tribunale. Il 24 maggio scorso l’udienza. Ieri la sentenza. Scrive il giudice della Consulta: «L’accesso alla procreazione medicalmente assistita comporta per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenza e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni».

La sentenza

Quindi, è il ragionamento, «corpo e mente della donna sono inscindibilmente interessati nel processo di creazione dell’embrione che culmina nella concreta speranza di generare un figlio». E quindi, davanti «alla tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione» l’uomo non può revocare il consenso. Ovvero, si legge nella sentenza: «Non è irragionevole la compressione della libertà di autodeterminazione dell’uomo in ordine alla prospettiva di paternità».

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