La telefonata di Michela Murgia al medico prima di morire, il patto sulla terapia: «Ora posso andare»

«Le ho garantito la libertà fino all’ultimo giorno. Ed era tutto quello che lei desiderava»

Avevano fatto un patto Michela Murgia e il suo medico, Fabio Calabrò, direttore di oncologia medica all’istituto nazionale dei tumori del Regina Elena di Roma. È lo stesso dottore a raccontare l’ultimo anno e otto mesi trascorsi con la scrittrice dalla scoperta della malattia fino alla mattina della sua scomparsa. Intervistato da Lucio Luca su Repubblica, Calabrò ripercorre i primi momenti in cui aveva dovuto comunicare a Murgia del tumore ai reni al quarto stadio. In quell’occasione con la scrittrice c’era Alesandro Giammei, il “figlio d’anima” della scrittrice: «Io tentavo di edulcorare la situazione, non me la sentivo in quel momento di essere diretto. Lei però capì e mi chiese soltanto una cosa: quanto mi resta? Poi aggiunse: “Dottore, io voglio continuare a fare la mia vita. Se devo sottopormi a una terapia che mi piega in due e mi rende incapace di lavorare, di scrivere, ci salutiamo qui. In quella fase non era necessario fare chemioterapia, ci lasciammo con un sorriso e un patto». L’accordo stretto tra il medico e Murgia prevedeva che «sarebbe stata libera di rinunciare alla cura nel momento in cui le medicine le avrebbero impedito di essere quella che era sempre stata. Io penso che quando si dà una comunicazione corretta a un paziente le si regala la libertà – dice ancora Calabrò – Forse per questo ha detto che per lei sono stato un buon medico. Le ho garantito la libertà fino all’ultimo giorno. Ed era tutto quello che lei desiderava».


La mattina del 10 agosto, poche ore prima di morire, Murgia aveva chiamato il suo medico: «Era molto presto, non l’aveva mai fatto a quell’ora. Era riuscita a dettare l’ultimo capitolo del libro sulla Gpa, la gestazione per altri, un lavoro al quale teneva particolarmente. Voleva che lo sapessi, che ce l’aveva fatta. “Dottore, ora posso andare”, ha sussurrato. E qualche ora dopo se n’è andata. Anche se è difficile per noi che l’abbiamo conosciuta pensare che lei non ci sia davvero più». Nei suoi ultimi 20 mesi di vita, Murgia ha cercato di scrivere quanto più possibile: «Ha avuto una risposta straordinaria alla terapia o alla immunoterapia – ricorda Calabrò – Ogni tanto mi chiamava e mi raccontava di aver camminato per chilometri dalla sua casa di Trastevere al bar nel quale ha scritto Tre ciotole. Sentiva il tempo venir meno e ha raddoppiato il suo impegno, che poi era la ragione della sua esistenza. Mi sento di dire che Michela ha affrontato il cancro come una opportunità e mai come una condanna. Nelle ultime settimane non riusciva più a muoversi, ma ha continuato a dettare pagine e pagine con una lucidità incredibile. Ed è stata libera anche quando ha accettato la radioterapia, il taglio dei capelli che ha condiviso in pubblico. Aveva bisogno di conquistarsi giorni, settimane. Sapeva che a un certo punto avrebbe dovuto dire basta. Ed è andata proprio così. Quella telefonata, poche ora prima di morire, è stato il suo modo di affermare ancora una volta la sua libertà: ora ho finito, posso andare».


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