La direttiva Ue non consentirà di sapere lo stipendio del collega. Ecco cosa dice in realtà

La Direttiva non dice questo, e ci sono tempi lunghi prima che entri in vigore. Proviamo a fare chiarezza.

In questi giorni sui mezzi di comunicazione è scattato un allarme privacy; sembrerebbe, a leggere alcuni titoli di giornale, che una Direttiva Comunitaria, in nome della lotta alle differenze salariali tra uomo e donna, abbia introdotto il diritto di conoscere lo stipendio di un (o di una) collega. È davvero così? Siamo di fronte all’ennesimo cavillo burocratico calato dall’alto della burocrazia di Bruxelles? No, non è così: la Direttiva non dice questo, e ci sono tempi lunghi prima che entri in vigore. Proviamo a fare chiarezza. 


Quando entra in vigore? C’è tempo fino al 7 giugno 2026

L’Unione Europea ha approvato di recente una direttiva comunitaria – la n. 2023/970 dello scorso 10 maggio 2023 – che non cambia in alcun modo le regole vigenti nel nostro Paese (e negli altri Stati Membri dell’Unione). Questa direttiva, infatti, si rivolge solo ai singoli Stati, vincolandoli ad introdurre nei rispettivi ordinamenti alcuni principi entro una certa scadenza (il 7 giugno 2026).  Fino a quando non sarà approvato, nel nostro Paese, il provvedimento di recepimento della Direttiva, gli obblighi di cui parliamo in queste pagine non saranno vigenti.


La Direttiva limita la libertà delle imprese? No, lo scopo è solo quello di combattere la disparità salariale ingiustificata

La Direttiva Comunitaria ha uno scopo preciso:  combattere la disparità salariale tra donne e uomini, imponendo che per lavori analoghi (o di pari valore) siano riconosciute le stesse retribuzioni. Per ottenere questo risultato si introducono diverse misure – la trasparenza, di cui diremo meglio dopo, il coinvolgimento delle parti sociali, le sanzioni, le misure processuali – senza tuttavia introdurre misure rigide: ciascuna impresa resterà libera, anche quando le norme entreranno in vigore, di pagare i dipendenti in base al merito. Sarà, tuttavia, più difficile portare avanti situazioni dove il merito sta tutto da parte dei lavoratori maschi: il datore di lavoro dovrà spiegare le ragioni di tale situazione.

Una lavoratrice avrà il diritto di conoscere lo stipendio del collega? No, si potranno avere solo dati aggregati, mai individuali

La Direttiva Comunitari si affida alla trasparenza per combattere le disparità salariali, ma senza violare la riservatezza individuale: non sarà possibile esigere la conoscenza dello stipendio di una singola persona. Piuttosto, le lavoratrici e i lavoratori potranno chiedere al datore di lavoro di conoscere le retribuzioni medie e aggregate pagate in azienda, ripartite per categorie (i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso e categorie tra loro equiparabili). Ogni dipendente potrà, quindi, chiedere al datore di lavoro di conoscere questi dati, e l’azienda dovrà rispondere entro tempi ragionevoli, comunque non eccedenti i due mesi dalla presentazione della richiesta. 

Cosa cambia per le selezioni  

Cambiano le regole anche per le selezioni del personale: gli annunci di lavoro dovranno recare informazioni neutre e obiettive sulla retribuzione e titoli professionali richiesti, e durante i colloqui sarà vietato di indagare sulle precedenti condizioni retributive dei candidati. 

Si potrà imporre il silenzio sulla propria retribuzione? No, il vincolo diventerà illegittimo

Nessuno potrà imporre al datore di lavoro di dichiarare la retribuzione di un singolo dipendente; allo stesso tempo, le aziende non potranno vietare a nessuno di rendere nota la propria retribuzione. Anche in questo caso, si punta sulla trasparenza: se un dipendente vuole far conoscere il proprio stipendio, non può essere imbavagliato-

Cosa cambia per le grandi imprese? Maggiori oneri informativi 

La Direttiva prevede obblighi più pesanti per i datori di lavoro che occupano da 100 a 250 lavoratori. Per tali imprese è previsto, a partire da giugno 2027, l’obbligo di redigere rapporti approfonditi sul gender pay gap nelle sue diverse componenti retributive, sempre facendo riferimento a valori medi e aggregati. Un impegno che avrà conseguenze importanti, perché ove emergesse un divario retributivo di genere pari o superiore al 5%, che il datore di lavoro non sia in grado di giustificare in base a fattori oggettivi e neutri dal punto di vista del genere, si dovranno adottare misure correttive.

A cosa va incontro un datore di lavoro che violerà le regole? Dovrà risarcire il danno

La Direttiva chiede agli Stati membri di adottare sistemi e procedimenti giudiziari finalizzati al risarcimento del danno subito dalle lavoratrici eventualmente lese dalla violazione degli obblighi di parità, oltre a introdurre misure processuali che rafforzano la loro tutela (come l’inversione dell’onore della prova).

Cosa cambia prima del recepimento della Direttiva? Nulla 

Queste regole, come già detto, non entrano subito in vigore:  gli Stati membri hanno tempo fino al 7 giugno 2026 per attuare la direttiva (e alcune misure potranno essere attuate anche dopo). Fino ad allora, le imprese saranno libere di discriminare? Non proprio. Sono già in vigore  diversi strumenti normativi – dal Codice delle Pari Opportunità sino al procedimento per repressione della discriminazione – che consentono di agire contro le discriminazioni. Le aziende dovranno attenersi a queste regole per non andare incontro a problemi.  

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