Il decano dei telecronisti sportivi Bruno Pizzul ha oggi 85 anni. E in un’intervista a la Repubblica riepiloga la sua vita e la sua carriera. A partire dalla sua proverbiale cura per la parola. Che viene «dal liceo classico, e da quel vezzo giovanile di mostrare il proprio bagaglio culturale. Ma il mio particolare rapporto con il lessico mi ha portato anche non poche critiche da parte chi mi chiedeva più enfasi. Io, però, ho sempre pensato che fosse importante cercare un lessico vario all’interno di situazioni un po’ ripetitive come quelle di una partita. Non me ne vanto, mi viene così. È un istinto. Il mio linguaggio sono io». A Pizzul le telecronache di oggi non piacciono tanto. Anche se i suoi giovani colleghi sono «preparatissimi. Però siamo sommersi da un diluvio di parole che distraggono e a volte infastidiscono, come se la partita non fosse al centro di tutto».
Fiumi di parole
«Non amo le frasi ridondanti, la valanga statistica e neppure l’uso smodato delle telecamere e delle inquadrature: rubano l’attenzione. Inoltre, oggi i giornalisti devono fare i conti con i social, a mio avviso un ingestibile vulcano di problemi», spiega Pizzul. Soprattutto in tv: «A volte è come se la televisione volesse solo parlare di sé stessa. Alcuni giornalisti anche bravi, in conduzione si atteggiano a showman, a comici. Tutto ciò che è autoreferenziale, non va bene. Il cronista non è un attore». Forse per questo la sua voce è ancora molto amata e ricordata: «La cosa mi imbarazza, perché non ho davvero fatto nulla di così importante o eroico, ho solo cercato di lavorare in modo apprezzabile e dignitoso, di comportarmi bene come quando facevo l’alpino alla scuola militare di Aosta. E ringrazio chi guardando qualche mia apparizione tv ha perdonato alcune sbavature dovute all’età. Mai avrei pensato, da ragazzo, di arrivarci».
Una vita lontana dal calcio
Oggi la sua vita è lontana dal calcio: «Guardo gli uccellini che mi becchettano sul tavolo. Di fronte alla vetrata che dà sul giardino, io e mia moglie abbiamo creato un ristorante stellato per volatili. Ci sono i passeri, ogni tanto arriva l’upupa, passano le gazze e le tortorelle. E io, che a volte non ricordavo il cognome di una certa ala destra, ora mi applico per nominare con esattezza tutte queste creature del cielo. Tra poco tornerà il pettirosso, non uno qualunque ma sempre quello, il nostro amico che se ne vola via ai primi caldi e torna quando ricomincia il freddo». Mentre il calcio di oggi «continuo ad amarlo, naturalmente, però ci sono troppe esagerazioni. Questa storia degli arabi, per esempio. Mah… Preferisco osservare la crescita di un fiore: a Milano, dove pure ho vissuto tanti anni stupendi, era impossibile. Ho scelto il mio orticello, anche se è sempre mia moglie a badarci: la terra è bassa, si fatica a stare chinati. Io invece prendo solo il meglio, mangio l’insalata appena cresciuta, le zucchine, bella la vita così. Dobbiamo proteggere la natura, il nostro pianeta è l’unica vera ricchezza che possediamo, lo stiamo torturando».
L’aneddoto
Infine, Pizzul racconta un aneddoto che riguarda il cronista Beppe Viola, suo maestro e amico. «Dovevo descrivere Juventus-Bologna di Coppa Italia per la Rai, in differita, sul campo neutro di Como. Era il 1970. Verso le dieci del mattino stavo per salire sull’auto aziendale per recarmi allo stadio Sinigaglia, quando Beppe mi vide e mi disse: “Ehi, ma dove vai a quest’ora? Non lo sai che la partita comincia alle tre? Manda via l’autista e vieni a pranzo con me, per il resto ci sarà tempo”. Mi portò nella trattoria milanese in via Londonio dove, a volte, trovavamo anche i calciatori, che so, Rivera o Pierino Prati. Insomma, il tempo passò e non considerammo che quel pomeriggio mezza Brianza si sarebbe messa in auto alla volta dello stadio di Como, dove arrivai che la gara era iniziata da un buon quarto d’ora. Per fortuna non si andava in onda in diretta, e la sera in studio sistemai un po’ le immagini e il commento».
L’indagine interna
Le conseguenze: «Il giorno dopo venne avviata dalla Rai una specie di indagine interna, che identificò il colpevole. Quando si seppe che si trattava di Beppe Viola, i capi furono clementi e fui perdonato, ma con una raccomandazione: stare più attento a chi frequentassi. Superfluo aggiungere che non ci sono stato attento mai», conclude nel colloquio con Maurizio Crosetti.
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