I riders di Uber Eats vanno riassunti. Sentenza durissima del tribunale di Milano

La procedura per condotta antisindacale aperta dalla Cgil. Il giudice dà ragione al sindacato

La decisione del Tribunale di Milano sul caso Uber Eats ha una portata storica: raramente una decisione ha cambiato, in un solo colpo, il destino di così tanti lavoratori e forse di un intero settore produttivo. Uber Eats nei mesi scorsi ha annunciato l’intenzione di abbandonare il mercato italiano e, come naturale conseguenza di questa scelta, ha risolto le migliaia di contratti di collaborazione che intratteneva con i propri rider. Questi rider non erano inquadrati come lavoratori dipendenti e, quindi, la Società non ha seguito le procedure che avrebbe, invece, dovuto applicare se lo fossero stati qualificati come subordinati: al posto di complicate e lunghe discussioni con il sindacato, ha potuto interrompere i rapporti di collaborazione mandando semplicemente una lettera.


Il Tribunale di Milano, all’interno di una procedura per “condotta antisindacale” avviata dalla CGIL, ha stigmatizzato la condotta della Società, sanzionando proprio le forme con cui è stato interrotto il rapporto con i fattorini: l’azienda, secondo il Giudice, non avrebbe dovuto saltare il confronto sindacale, ma avrebbe dovuto seguite le procedure previste per il licenziamento dei dipendenti, in quanto i rider sono solo formalmente autonomi ma, nella realtà quotidiana, svolgono prestazioni di lavoro dipendente. Il decreto del Tribunale arriva a questa conclusione analizzando le modalità concreto di svolgimento della prestazione e i vincoli cui sono soggetti i rider, che devono, quindi, essere inquadrati come lavoratori subordinati.


Le conseguenze

Le conseguenze che fa discendere il Giudice da questa ricostruzione sono molto pesanti. Prima di tutto, il Tribunale, riconosciuta la natura antisindacale della condotta aziendale, ordina alla Società di revocare tutti i recessi dai contratti di lavoro di coloro che svolgevano la prestazione di rider con account attivo il 14 giugno 2023. Migliaia di contratti che riprendono vita retroattivamente, e che dovranno – con tutta probabilità – essere riqualificati come rapporti di lavoro dipendenti, con dei costi enormi a carico dell’azienda. Ma il Giudice milanese non si ferma a questo: ordina alla Società di avviare con le organizzazioni sindacali le procedure di confronto previste dalla legge 234/2021 e quelle di licenziamento collettivo previste dalla legge 223/1991.

Le procedure

La prima delle due procedure è quella prevista dalla c.d. normativa anti-delocalizzazioni (legge 234/2021), che impone a chi vuole procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50, di svolgere un approfondito percorso di esame congiunto. La seconda delle due procedure è quella ordinaria di licenziamento collettivo (legge 223/1991) che si applica ogni volta che una società ha almeno 5 esuberi. Una decisione che, per la portata e l’ampiezza dei suoi effetti, riporta alla ribalta la questione centrale che, dal caso Foodora in poi, si pone rispetto al lavoro dei rider: la difficoltà di inquadrare i lavoratori delle piattaforme digitali negli schemi classici del lavoro.

Il rapporto di subordinazione

Una difficoltà che spesso viene risolta fuggendo dalla subordinazione (solo poche imprese hanno accettato la sfida di assumere i rider, mentre la maggioranza degli altri operatori sperimenta soluzioni diverse). Una fuga che si scontra con la resistenza molto forte della giurisprudenza, che in modo costante – c’erano già dei precedenti, seppure non di questa portata – ricorda alle imprese del settore che alcuni paletti giuridici sono insuperabili.

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