Dopo la vittoria in tribunale del vigile di Sanremo ad essere smutandata sembra solo la giustizia

Un sistema di regole che fa acqua da tutte le parti e rischia di mettere in ginocchio i datori di lavoro e i lavoratori che vorrebbero, in tempi certi e ragionevoli, sapere se avevano ragione o avevano torto

Chi non ricorda il vigile di Sanremo che fu immortalato mentre timbrava il cartellino in mutande? Un’immagine che fece scalpore e, come spesso accade quando una notizia diventa virale, provocò una tempesta giudiziaria sulla teste del malcapitato agente: fu licenziato, all’inizio del 2016, dal suo datore di lavoro (il Comune) e subì un’indagine giudiziaria penale. Questa tempesta giudiziaria, a distanza di qualche anno, non solo si è spenta ma, addirittura, ha generato un cospicuo guadagno per il lavoratore: dopo l’assoluzione, nel 2022, nel processo penale, il vigile è stato reintegrato sul posto di lavoro e ha ottenuto un ricchissimo risarcimento del danno (una somma di circa 250 mila euro). Un risultato abbastanza sorprendente, non tanto per quello che avevano scritto i media dell’epoca quanto, piuttosto, per la valutazione che aveva dato la stessa magistratura del lavoro alla condotta del vigile: il Tribunale del lavoro, in primo grado, aveva ritenuto valido il licenziamento, confermando la decisione del Comune. Cosa ha portato la Corte d’Appello di Genova a rovesciare il verdetto in maniera così drastica?
In attesa che siano pubblicate le motivazioni della decisione, dobbiamo affidarci alle dichiarazioni del legale del lavoratore per capire qual è la tesi che ha fatto breccia nella corte genovese. Questo lavoratore, nei suoi ricorsi contro il licenziamento, ha sempre sostenuto di essere andato a timbrare in mutande perché la sua abitazione era distante pochissimi metri: a suo dire, la timbratura con quell’abbigliamento un po’ azzardato era giustificata dal fatto che, dopo aver registrato l’inizio della giornata lavorativa, avrebbe dovuto svolgere un controllo interno, per il quale non serviva indossare la divisa.


Tutto capita nelle sentenze

Secondo un gioco di parole in voga tra gli avvocati, il brocardo latino “tot capita tot sententiae” dovrebbe tradursi come “tutto capita nelle sentenze”. Un gioco di parole che si adatta bene a questo caso, dove è andato in scena un evidente corto circuito interpretativo: la stessa vicenda, dopo essere stata approfondita dalle parti, è giudicata in modo opposto, al 100% legittima (si può timbrare in mutande, quindi prima di essere vestiti e pronti per il lavoro) oppure al 100% illegittima (è giusto licenziare chi si presenta alla timbratrice senza pantaloni), da magistrati muniti della stessa esperienza e specializzazione. Come è possibile che accada una cosa del genere? Un margine di incertezza nelle sentenze è fisiologico e, anzi, è una garanzia contro gli errori giudiziari; ma un caso come questo, anche per via dell’enorme lasso di tempo passato dal licenziamento, avrebbe meritato un esito di maggiore coerenza tra primo e secondo grado (in una direzione o nell’altra, qui non interessa quale).


La giustizia ingiusta

Il licenziamento del vigile di Sanremo risale al 2016: se il Comune, come è prevedibile, farà ricorso contro la sentenza appena emanata dalla Corte d’Appello di Genova, la Cassazione emanerà una decisione tra non meno di un anno (ma c’è il serio rischio che ne servano molti di più). Decisione che potrebbe essere definitiva oppure no, non potendosi escludere che la Suprema Corte scelga di rinviare la causa a un’altra sezione della stessa Corte d’Appello di Genova. Nel frattempo, in attesa che giunga la parola fine su questo licenziamento, saranno passati dieci o più anni dalla vicenda: il vigile avrà visto completamente stravolta la sua vita, le persone che, per conto del Comune, avevano deciso e intimato il licenziamento probabilmente saranno passate a fare altro, e l’opinione pubblica avrà ormai rimosso tutta la storia. E allora, anche se quel giorno sarà emanata una sentenza perfetta, non potremo dire “giustizia è fatta”, perché una decisione che arriva dopo dieci o più anni non è giusta per definizione.

La roulette russa del maxi risarcimento

Un aspetto non secondario della vicenda del vigile ligure è quello del risarcimento: una volta riconosciuta l’illegittimità del suo licenziamento, ha ottenuto il diritto al pagamento di tutti gli stipendi che avrebbe conseguito dal 2016 a oggi, per una somma di circa 250 mila euro. Somma che intascherà solo provvisoriamente, essendo anche lui esposto al rischio, tra qualche anno, di doverla restituire, qualora la Cassazione decidesse di rovesciare nuovamente la decisione della Corte d’Appello. Piuttosto che una vicenda giudiziaria sembra una sessione di puntate – rosso o nero? – al Casinò di Sanremo; possibile che il legislatore non si sia mai posto il problema di evitare situazioni del genere, facendo durare meno i processi e riducendo il rischio economico per le parti? In verità, qualcuno ci aveva provato. Il tanto bistrattato Jobs Act aveva tentato di “contenere” il rischio economico per i licenziamenti illegittimi, fissando dei paletti rigidi per calcolare i risarcimenti (erano previste somme fisse e dei massimali di costo), ma quell’impostazione (comunque applicabile solo nel privato e solo agli assunti post marzo 2015) non è stata digerita dalla Corte Costituzionale. A questo orientamento della Consulta si sono aggiunti diversi interventi legislativi e giurisprudenziali che, insieme alle lungaggini dei processi, hanno ridotto la materia dei licenziamenti a un autentico caos, dove vige una sola regola: decide il Giudice, a suo insindacabile giudizio, e chi perde paga un conto salatissimo, a distanza di tantissimi anni dai fatti. Un sistema di regole che fa acqua da tutte le parti e rischia di mettere in ginocchio – anzi, di lasciare in mutande – i datori di lavoro e i lavoratori che vorrebbero, in tempi certi e ragionevoli, sapere se avevano ragione o avevano torto, e si trovano, invece, a giocare alla roulette.

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