L’Italia e il dramma della povertà minorile, Andrea Morniroli: «Nella manovra nulla per bambini e Sud. E col Pnrr milioni di fondi vanno buttati» – L’intervista

Il co-coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità punta il dito sulle falle della legge di bilancio, e della politica, nel rispondere all’emergenza sociale

Taglio del cuneo fiscale per i lavorati a reddito medio-basso e decontribuzione per le mamme lavoratrici, più sostegni per gli asilo nido dal secondo figlio e un mese in più di congedo parentale. Ma anche Iva in risalita su assorbenti e prodotti per l’infanzia. Giorgia Meloni si è sforzata di rassicurare che le sue priorità politiche – sostegno alla natalità e ai redditi – troveranno traduzione concreta nelle misure della Legge di Bilancio che approda la prossima settimana in Parlamento. Ma chi lavora coi piedi per terra nel mondo del sociale coglie in un attimo tutti i limiti della manovra. E si rifiuta di credere alla nota scusante che «si fa quel che si può con le risorse che ci sono». Il problema è ben altro, dice in quest’intervista a Open Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità fondato dall’ex ministro Fabrizio Barca. Riguarda l’intera politica italiana, il suo approccio alla lotta alle diseguaglianze. E perfino il Pnrr, invocato a giusto titolo come possibile chiave di volta per il rilancio del Paese, ma che sconta grotteschi equivoci d’implementazione, per esempio, nel settore della scuola.


Lei ha denunciato pubblicamente come la politica continui a dimostrarsi incapace di risolvere la vera emergenza del Paese, ossia la povertà, a partire da quella di bambini e ragazzi. Perché?


«La risposta sta nei dati. L’ultima rilevazione Istat (2021) ci dice che in Italia ci sono 1,2 milioni di bambini e bambine in povertà assoluta, quattro volte in più rispetto al 2008, e 2 milioni in povertà relativa, cioè che hanno accesso a beni essenziali ma non godono delle altre opportunità fondamentali per poter esprimere appieno la loro sovranità di cittadini: la cultura, la socialità, lo sport, i trasporti. Un alunno su quattro finisce il ciclo di studi o rischia di farlo in condizioni di fallimento formativo, cioè senza aver raggiunto le competenze necessarie a trovare facilmente lavoro o a esercitare a pieno titoli i propri diritti di cittadinanza. E la dispersione scolastica, alta a livello di media, è aggravate da tre dimensioni. 1) Il 90% dei ragazzi che hanno carriere scolastiche intermittenti sono figli di poveri: la scuola non è più ascensore sociale. 2) Nel Mezzogiorno troviamo percentuali record: tra il 16 e il 22% contro una media nazionale del 12,7%. Tra l’altro in quei territori non solo c’è scarsità di servizi 0/6 (quelli per la prima infanzia) ma anche il tempo pieno delle scuole è quasi inesistente, per cui se un bambino nasce e cresce in Campania o Sicilia, tendenzialmente farà di fatto un anno di scuola in meno al termine del ciclo di studi dell’obbligo. Altro che merito: è come se ai nastri di partenza i bambini del Sud partissero con una palla al piede per correre i 100 metri. 3) Se poi sei donna, del Sud e povera, hai scarsissime possibilità di uscire dal circuito di una profezia che si autoavvera. O questo Paese decide che il contrasto alla povertà, compresa quella educativa, diventa questione prioritaria per lo sviluppo giusto ed equo, o non faremo che continuare a vedere aumentare la forbice delle distanze tra ricchi e poveri».

La manovra del governo Meloni non si sforza di agire in questa direzione?

«In questa manovra ci sono delle misure anche giuste ma tampone, precarie, temporanee: l’abbattimento del cuneo fiscale solo per un anno, il sostegno all’iscrizione dei bimbi agli asili nido con una mano mentre con l’altra si aumenta il costo di pannolini ed assorbenti… Si capisce che è una cosa precaria, per rispondere alle esigenze delle persone, anche un po’ coi toni della propaganda e dello spettacolo, perché purtroppo noi siamo un Paese – non solo questo governo – che agisce sempre di più sulla rappresentazione della realtà, e non sulla realtà. C’è poca capacità, coraggio e competenza per affrontare quella complessità. Il problema è che se tu non restituisci la realtà ma rappresentazione rischi di fare delle caricature, e le politiche escono poi sbagliate». 

Chi ha in mano le leve dell’azione politica ed economica obietta: il quadro è chiaro, ma le risorse sono limitate, facciamo quel che possiamo. Non è forse una giustificazione?

«Purtroppo ciò che manca di fondo è l’assunzione di responsabilità rispetto ai temi che ho citato. Non c’è strategia, né programmazione, ma a livello di sistema-Paese. Da ormai 10 anni togliamo 2 miliardi l’anno in media alla scuola perché facciamo il calcolo del calo demografico: gli alunni calano, dunque avremo meno spese per i docenti, dunque possiamo risparmiare risorse. Perché invece non usare quella risorse che si risparmiano facendo il tempo pieno anche al Sud, aumentando i servizi 0/6, reintroducendo la compresenza nella scuola primaria? Senza questi investimenti questo Paese non va da nessuna parte. Ricerche americane ci dicono che una povertà educativa come quella che abbiamo in Italia incide a lungo termine sul Pil per il 4%. Ormai lo dicono anche gli economisti: non stiamo ragionando degli ultimi, dei fragili, degli “sfigati”. Ma del potenziale di un Paese intero. Perché quegli ultimi sono così tanti che non possono essere contenuti semplicemente con la carità: massimo rispetto, ma non può questa farsi politica dello Stato». 

O i sussidi, come si è spesso detto in questi anni?

«Certo. Ma lo diceva già un Papa ben precedente all’attuale, Paolo VI, nella sua Res sociale: “Sento il dovere di non restituire in termini di carità quello che è già dovuto in termini di giustizia”. I soldi non ci sono, si dice? Noi quest’anno abbiamo festeggiato perché abbiamo un’evasione fiscale di 89 miliardi, quando normalmente si attestava sui 100. Bene, sono pari a quattro volte la legge che stiamo discutendo: vogliamo usarli per fare azione seria? La nostra Costituzione individua chiaramente la progressività fiscale come forma di redistribuzione della ricchezza. Torniamo lì. Perché senza quello, e a forza di dire alla gente che le tasse sono brutte, che è sbagliato pagarle, che lo Stato fa le gabelle, poi non hai più soldi per finanziare i servizi! E i cittadini si fanno due conti e lo capiscono perfettamente».

A proposito di risorse, si dice sempre che questo Pnrr vale come un piano Marshall: quasi 200 miliardi a disposizione in 7 anni per rammendare e rilanciare il tessuto socioeconomico del Paese. Compresi impegni ambiziosi su lotta all’abbandono scolastico, alla povertà, inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Perché, visto dal basso, il piano sin qui non sta funzionando?

«Perché nel momento in cui l’hanno scritto, il Pnrr, no hanno provato a dialogare con chi fa le cose sul territorio. La politica ha smesso di ascoltarli. Mentre i territori molto spesso propongono delle cose che si possono fare perché già si stanno facendo. Se tu non ascolti rischi di fare delle cose che stanno su un piano slegato dalla realtà. Un solo esempio sul mondo della scuola. I 500 milioni stanziati contro la povertà educativa sono arrivati alle scuole con la modalità Pon, cioè bandi extra-scuola calati dall’alto. Risultato: in molti territori le scuole non sanno partecipare a quei bandi, perché non hanno le risorse necessarie. Allora che fanno? Chiamano la cooperativa e dicono: “Tienimeli tu questi 10 alunni che danno fastidio nel laboratorio al pomeriggio”. Così il finanziamento forse impatta sulla carriera scolastica del singolo, ma non cambia la scuola perché non è una cosa di sistema. Perché invece non spendiamo quei fondi come si fa in Francia o in Belgio, con il modello delle zone educativi speciali? Abbiamo tutti i dati Istat e Invalsi per sapere che oggi in Italia ci sono 300 aree fragili, dove la povertà educativa ha un impatto devastante. Bene, prendiamo in carico quelle aree, mettiamoci 1,5 milioni per 3 anni individuando le scuole pilota, attiviamo delle comunità educanti che declinino quei fondi sui bisogni territoriali. E vediamo che succede La Francia fa così: perché noi dobbiamo per forza fare i bandi? Sono politiche poco coraggiose, poco lungimiranti e che rivelano la totale assenza di una strategia e di una programmazione di sistema».

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