Femminicidi, la giurista Pitch: «Inutile inasprire le pene. Non il patriarcato ma la sua crisi ha ucciso Giulia Cecchettin»

Secondo la giurista, autrice del libro «Il malinteso della vittima», le nuove generazioni stanno ribaltando la prospettiva sulle donne-vittime: «Sarà un percorso lungo ma è iniziato»

«Sono giorni che non riesco a non pensare a Giulia Cecchettin: questo caso ha sconvolto anche me», dice la giurista Tamar Pitch. Nonostante una carriera trascorsa tra crimini e devianze, l’accademica di fama internazionale – ex ordinaria di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia – si concede un momento di tristezza prima di iniziare il nostro dialogo. Direttrice della rivista «Studi sulla questione criminale», nel suo ultimo libro Il malinteso della vittima  (Edizioni Gruppo Abele) Pitch si è dedicata alla potenza simbolica del penale che ha condotto molti, movimenti femministi compresi, a vedere nell’inasprimento delle pene e nel securitarismo la strada maestra per arginare la violenza contro le donne. Con evidenti scarsi risultati.  


Tutte le volte che si compie un femminicidio la richiesta è di nuovi reati e pene più severe per gli assassini. Sta accadendo anche oggi. Cosa ne pensa?


«È ormai appurato che un inasprimento delle pene non serve a ridurre i reati. Con questo non voglio dire che i criminali non debbano finire in carcere o non debbano essere  puniti. Mi limito a evidenziare che, per esempio, anche nei Paesi dove c’è la pena di morte non c’è un impatto in tal senso. Il nostro tasso complessivo di omicidi è molto basso, uno dei più bassi del mondo, il secondo in Europa dopo il Lussemburgo. Perfino i femminicidi, che sono una parte consistente degli omicidi, non sono molti. Naturalmente è difficile fare statistiche su quello che noi chiamiamo femminicidio perché non c’è un reato così neanche in altri Paesi: la comparazione è molto complicata. Sappiamo che in Italia sono 106 le donne uccise dall’inizio dell’anno “in quanto donne”. E che, mentre il tasso di omicidi complessivo tende a diminuire anno dopo anno, quello dei femminicidi rimane costante. Se andiamo a vedere chi sono gli autori, a fronte di una campagna sull’insicurezza e la criminalità nelle città dovuta principalmente agli immigrati, i dati ci dicono che nella maggior parte dei casi i femminicidi vengono commessi da persone vicine alla vittima – mariti, ex fidanzati, amici  -, italiani, bianchi e di tutte le classi sociali. Non è violenza di genere ma violenza maschile contro le donne. Dunque la domanda da farsi: perché gli uomini uccidono le donne? Non c’è una risposta univoca. Molti parlano di patriarcato, ma io credo che c’entri egualmente la crisi del patriarcato perché sempre più donne si ribellano, sbeffeggiano l’autorità e il potere, scelgono di andare via. In questo senso parliamo di crisi del patriarcato perché nessun potere regge allo scherno e alla sottrazione degli oppressi. Questo processo probabilmente non ha coinciso con una presa di consapevolezza da parte degli uomini. Restano fragili, non sanno fare i conti con un’identità che non è più quella che è stata trasmessa dai nonni ai padri. E molti non riescono a farse una ragione». 

A questo proposito molti uomini non accettano la presa in carico collettiva del fenomeno. Eppure – come sottolineava Mattia Feltri su La Stampa – esiste una differenza tra la colpa – che è  certamente individuale – e la responsabilità, che in quanto membri di una società deve essere collettiva.  

«Sono d’accordo. Quando si dice patriarcato non si intende “tutti gli uomini” ma una cultura che è ancora presente nel nostro Paese e che vede le donne come proprietà o soggetto subalterno. Non dimentichiamo che il delitto d’onore è stato abolito solo nel 1981. Siamo nel pieno di una fase di transizione, che può essere lunga e anche sanguinosa. In tutto il mondo è in atto una vera e propria guerra contro le donne. La crisi del patriarcato genera mostri». 

Qual è il ruolo che effettivamente la giustizia penale può avere nell’arginare questo tipo di fenomeni e cosa invece non può fare? 

«Come ho detto, non credo alla necessità di introduzione di nuovi reati o di innalzare le pene. In questi casi si tratta di omicidio e le pene sono già molto alte. Innalzarle vuol dire solo dimostrare all’opinione pubblica di aver fatto qualcosa».

Lei lo definisce populismo penale.

«Ho visto che c’è ancora chi chiede l’ergastolo a vita, che è la negazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione che stabilisce che le pene dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato. In questo momento tutti quelli che operano nel sistema di giustizia penale dovrebbero innanzitutto cercare di non produrre vittimizzazione secondaria. L’esortazione rivolta alle donne di denunciare, ad esempio, mi sembra solo un modo per dare ancora una volta la responsabilità alle donne. Una verità resa ancora più eloquente dal fatto che in tantissimi casi di femminicidio gli assassini erano stati denunciati». 

Lei è molto scettica anche sulla richiesta di maggiore sicurezza per le donne. Può spiegarci il motivo?

«Continuando a battere su questo tasto il senso comune o l’opinione pubblica tende a convincersi che effettivamente viviamo in un in un Paese molto pericoloso, con città piene di delinquenti malintenzionati. Quello che succede intorno a noi –  le catastrofi ambientali, le guerre, l’inflazione, la difficoltà di arrivare a fine mese, la precarietà del lavoro – immagino sia molto più pressanti sulla nostra vita rispetto alla microcriminalità. Eppure a noi donne è sempre stato detto di fare attenzione, di non parlare con gli estranei, di non percorrere le strade da sole di sera. Anche questa è vittimizzazione: riguarda il nostro agio di percorrere il mondo con libertà. In realtà, credo che la richiesta di sicurezza per le donne abbia a che vedere soprattutto con una maggiore sicurezza economica. Molti anni fa abbiamo condotto un ricerca con Carmine Ventimiglia sulla percezione di sicurezza e insicurezza femminile in alcune città dell’Emilia-Romagna. Abbiamo visto che le donne con maggiori risorse economiche, sociali e culturali si muovevano con maggiore agio nella città, al di là del fatto che si sentissero sicure o insicure. La sicurezza si ha quando le donne possono muoversi per strada e non quando sono al riparo dalla strada». 

La ministra Casellati ha detto che le leggi possono avere una valenza pedagogica per la società. Secondo lei è così?

«L’idea arriva da lontano e ha permeato anche le scelte di molto attiviste. Il movimento delle donne negli anni 90 ha cercato di cambiare la legge contro la violenza sessuale puntando proprio sull’idea che il diritto penale potesse avere anche una funzione, per così dire, pedagogica o pedagogico-simbolica. Certamente può averlo ma non ha niente a che vedere con l’innalzamento delle pene. Funziona quando rende evidente che quel fenomeno – che fino ad allora era stato considerato normale – non lo è più».

Facciamo un esempio.

«Alla mia età era normale che i maestri per punire i bambini a scuola dessero bacchettate sulle dita. Adesso è considerato illecito, dunque non normale. Era un modo di concepire l’educazione dei bambini che adesso viene chiamato reato. Tuttavia quando le leggi devono svolgere questa funzione pedagogica – le cosiddette leggi-manifesto – corrono un rischio molto alto: magari dopo l’annuncio si capisce presto che sono inapplicabili oppure che non riescono davvero a intervenire sul problema. Questo può scatenare effetti controproducenti». 

Nel suo ultimo libro scrive che le donne – per essere ascoltate e legittimate come soggetti politici – sono state rinchiuse nella categoria di vittime. Se guardiamo la reazione delle nuove generazioni alla morte di Giulia Cecchettin, sembra che ci sia un ribaltamento della prospettiva: sono arrabbiate, vogliono fare rumore, non silenzio.  In queste ore sono dappertutto le parole dell’architetta peruviana Cristina Torres-Cáceres: «Se domani sono io, mamma, se domani non torno, distruggi tutto».

«Lo vedo e ne sono ben contenta. Ci vuole una ribellione. Tutto questo non sarà facile, non sarà pacifico, e forse sanguinoso, in Italia come in altri luoghi del mondo dove le donne si stanno ribellando, penso all’Iran. Le donne si devono ribellare, come ci siamo ribellate noi al nostro tempo. Certo, allora forse era più facile».

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