Ambiente, i paradossi della Cina: campionessa di emissioni ma prima in ogni classifica sul clima

Il Paese di Xi Jinping è ancora dipendente dal carbone, ma è anche leader in quasi ogni settore chiave della transizione ecologica. Come si spiega questa contraddizione?

Nelle classifiche che riguardano ambiente e clima, la Cina occupa quasi sempre il primo posto. A prescindere che si tratti di primati positivi o negativi. Il Paese guidato da Xi Jinping è primo per quantità di CO2 immessa nell’atmosfera, ma è anche leader mondiale nella produzione di tecnologie net zero. È di gran lunga il Paese che installa più rinnovabili, ma è responsabile anche per metà del carbone che viene bruciato in tutto il mondo. Il ruolo della Cina nella lotta ai cambiamenti climatici è racchiuso in tutti questi dati, apparentemente in contraddizione fra loro. Numeri che raccontano di un Paese ancora estremamente inquinante, ma allo stesso tempo all’avanguardia della transizione ecologica. Per rispettare le promesse di riduzione delle emissioni prese in sede internazionale, il mondo ha bisogno della Cina. E il Paese guidato da Xi Jinping ha tutta l’intenzione di fare la propria parte, probabilmente più per interesse strategico che per sincera devozione alla causa.


Il picco delle emissioni di CO2

Stando agli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Atlas, nel 2021 la Cina è stato il Paese che ha emesso più anidride carbonica nell’atmosfera. In termini assoluti, ha rilasciato 10.668 milioni di tonnellate metriche (MtCO2), pari a quasi un terzo delle emissioni di tutto il mondo (30,8%). Si tratta di un dato in crescita rispetto agli anni precedenti, anche se alcuni esperti credono che potrebbe essere proprio il 2024 l’anno in cui il gigante asiatico raggiungerà il picco delle proprie emissioni climalteranti. Una recente analisi di Carbon Brief stima che quest’anno le emissioni della Cina inizieranno per la prima volta a calare, grazie all’installazione a ritmi record dei nuovi impianti di rinnovabili. Sulla carta, Pechino si è presa l’impegno di raggiungere la neutralità carbonica – ossia le zero emissioni nette – entro il 2060, dieci anni più tardi rispetto a Stati Uniti e Unione Europea. Secondo Robin Schindowski, ricercatore del think tank Bruegel ed esperto di questioni cinesi, ci sono due punti di vista da tenere in considerazione quando si valutano gli impegni della Cina sul clima. A livello internazionale, «è chiaro che una riduzione a lungo termine delle emissioni di CO2 non è possibile senza la Cina». Ma a livello interno, spiega Schindowski a Open, Pechino «attribuisce grande importanza alla sicurezza energetica, motivo per cui il carbone sarà disponibile ancora per un bel po’ di tempo e attualmente vi è un’enorme crescita del settore».


EPA/Roman Pilipey | Lavoratori di una miniera di carbone a Diantou, nella provincia di Shaanxi, in Cina (29 settembre 2018)

In equilibrio tra carbone e rinnovabili

Xi Jinping ha ribadito più volte che non solo non ha alcuna intenzione di rinunciare al carbone (almeno per ora), ma che intende espanderne il suo utilizzo. Secondo un rapporto pubblicato dal Global Energy Monitor (Gem), nel 2022 la Cina ha approvato il maggior numero di nuove centrali dal 2015 (82) e ha prodotto quasi 4mila milioni di tonnellate di carbone, esattamente la metà di quello prodotto in tutto il mondo. Allo stesso tempo, la Cina è anche il Paese che traina il boom delle rinnovabili. Nel 2023, la Repubblica Popolare ha commissionato una quantità di energia solare fotovoltaica pari a quella commissionata nell’anno precedente da tutto il resto del mondo messo insieme. La produzione di energia eolica è aumentata del 66% in soli 12 mesi e l’impressione è che la crescita sia soltanto all’inizio. L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che nel quinquennio 2023-2028 la Cina triplicherà la capacità di rinnovabili, al punto che dovrà iniziare a decidere a chi vendere l’energia in eccesso. «Il carbone diventerà meno importante, pur crescendo in termini assoluti, mentre le energie rinnovabili diventeranno più importanti, così come il nucleare», spiega Schindowski. «Una preoccupazione crescente – precisa l’esperto – riguarda la sovraccapacità nel settore energetico, un fenomeno sempre presente in Cina. Se Pechino non può vendere a livello nazionale ciò che produce, deve trovare mercati per le esportazioni».

EPA/How Hwee Young | Un parco solare a forma di panda a Datong, in Cina (25 luglio 2017)

Alla ricerca del primato (anche) sulle auto elettriche

Tra le tecnologie chiave per la transizione ecologica su cui Pechino sta rosicchiando sempre più terreno alle aziende occidentali ci sono anche le auto elettriche. Nell’ultimo trimestre del 2023 si è concretizzato un sorpasso atteso da tempo, quello di Byd su Tesla. Il colosso cinese dell’automotive ha venduto da ottobre a dicembre 529.046 vetture full electric, superando le 484.507 della società di Elon Musk. La crescita ha riguardato sia le vendite in Cina sia le esportazioni all’estero, a conferma del ruolo sempre più di rilievo che Pechino intende ritagliarsi anche in questo settore. E c’è un dato, secondo Schindowski, che racconta bene come evolverà il mercato nei prossimi anni: «Per il trasporto delle automobili è necessaria una certa tipologia di nave mercantile, la cosiddetta nave roll-on/roll-off. Negli ultimi anni, le compagnie di navigazione cinesi hanno ordinato in media quattro di queste navi all’anno e per il periodo 2023-2026, 198 nuove navi sono state ordinate da cantieri cinesi. Questo significa che la crescita delle esportazioni cinesi di veicoli elettrici è destinata ad accelerare ulteriormente nei prossimi anni». Brutte notizie per i produttori europei, che dovranno fare i conti con la concorrenza sempre più agguerrita delle case di produzione asiatiche. Ed è proprio in quest’ottica che vanno lette le parole pronunciate da Ursula von der Leyen lo scorso settembre. «Troppo spesso le nostre aziende devono affrontare la concorrenza di operatori stranieri pesantemente sovvenzionati. Ecco perché stiamo lanciando un’indagine anti-dumping sui veicoli elettrici provenienti dalla Cina», ha annunciato la presidente della Commissione Europea durante il discorso sullo Stato dell’Unione.

Le due ragioni del successo cinese

Ma come ha fatto la Cina a ritagliarsi un ruolo così di primo piano in tutti i settori chiave della transizione ecologica? I motivi sono essenzialmente due. Primo: ha iniziato a investirci prima di tutti gli altri. «L’attenzione della Cina a questi settori risale agli anni Duemila, quando il governo identificò le tecnologie ambientali come un’industria strategica emergente. Questo periodo ha gettato le basi per l’attuale forza del Paese, che ora può raccogliere i frutti di quanto seminato», suggerisce Schindowski. Questa politica ha portato ad anni di investimenti anche nella scienza e nella tecnologia, oltre che a generosi sussidi statali per le aziende del settore. Ma c’è una seconda ragione che spiega perché la Cina è riuscita a emergere più di altri nella corsa verso un’economia sostenibile: il controllo di buona parte delle materie prime. Già nel 1987, l’allora leader Deng Xiaoping affermò: «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare». Ad oggi Pechino è il primo produttore al mondo di terre rare, un gruppo di 15 elementi chimici utilizzati per i motori delle auto ibride, nei magneti che fanno funzionare le pale eoliche e non solo.

Il quasi monopolio sulle materie prime

Secondo i dati dello US Geological Survey, la Cina ha una quota di mercato che si aggira intorno al 60%. Soltanto la miniera di Bayan Obo, situata in Mongolia ma controllata dalla Cina, è responsabile di quasi un terzo della produzione mondiale. Se si considera la fase successiva della filiera, ossia la separazione delle terre rare, la quota di mercato di Pechino sale addirittura all’85%. Di fronte a questi dati, spiega Schindowski, ci sono due visioni che prevalgono. «La prima presuppone che il governo cinese abbia deciso di rendere il mondo dipendente dalle sue capacità minerarie e/o di lavorazione e ora ne tragga i benefici», spiega l’esperto di Bruegel. Il secondo punto di vista afferma invece che il governo cinese si starebbe preoccupando più che altro di garantire le proprie catene di approvvigionamento. «Io tendo verso quest’ultima visione», dice Schindowski. Il problema però rimane: l’Unione Europea è dipendente dalle importazioni della Cina per molti materiali critici. E anche se non è così scontato affermare che i leader cinesi lo avessero previsto, «questo non significa – avverte l’esperto – che la Cina potrebbe non sfruttare questa dipendenza».

EPA ! Una miniera di terre rare nella provincia di Ganxian, in Cina (30 dicembre 2010)

Foto di copertina: Elaborazione grafica di Vincenzo Monaco

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