Alfa e il successo dopo Sanremo: «Ecco cosa mi ha detto Vecchioni prima del duetto»- L’intervista

La febbre alta, il duetto con Vecchioni, il messaggio dei Lumineers, il nuovo disco e il folk: a pochi giorni dal festival la rivelazione del festival si racconta

Vai!, imperativo presente del verbo andare, ma anche il titolo della canzone portata in gara da Alfa al Festival di Sanremo appena concluso, chiuso con un dignitosissimo decimo posto. E forse non è un caso. Certamente non lo è il fatto che le varie giurie abbiano premiato il brano di questo genovese classe 2000 dai numeri stellari, specie sul web, ma non solo; premiata anche la percezione di un carattere musicale molto centrato, rivolto ai propri coetanei, è chiaro, ma onesto, sincero, impacchettato in un’idea che, seppur solare, risulta ugualmente ricercata. Lo dimostra anche il disco che seguirà questa sua esperienza sanremese, Non so chi ha creato il mondo ma so che era innamorato, dieci canzoni che riescono al tempo stesso a risultare intime ma generazionali, una finestra su una determinata porzione di mondo, buona per chi quel mondo vuole capirlo, nella propria visione, nelle proprie paure, nelle proprie prospettive e, soprattutto, nel proprio sentimentalismo. Si tratta infatti di un disco che, come titolo suggerisce, mette al centro l’amore come concetto generale, come anello di congiunzione tra le nostre giovani umanità, fisiologicamente differente da quello sempre più cinico dell’età adulta. Alfa non cela le proprie emozioni e nemmeno le derivanti e sacrosantissime vulnerabilità che ne derivano: è questo che probabilmente lo ha spinto verso il successo, verso un tour nei palazzetti, in partenza il 24 febbraio dal Forum D’Assago di Milano, il salotto buono del live indoor italiano, già andato sold out, e che proseguirà per tutto il mese di aprile toccando Padova, Torino, Napoli, Bari e Firenze.   


Come ci si sente il giorno dopo la fine del primo Festival di Sanremo della carriera?


«Io ho avuto un di tracollo di salute, mi è salita la febbre a 39,5, un calo di tensione incredibile; durante la settimana del Festival dormi poco, sei sempre agitato, ci metti tanta emotività. Non ho ancora avuto un feedback dal mondo reale, sono tornato a Genova dai miei genitori e sono contento di essere qua a casa, non della febbre ovviamente, ma perchè settimane del genere potrebbero davvero lanciarti la testa su altri pianeti, invece tornando qua a casa ti ricordi subito da dove vieni, poi una cosa che mi piace tantissimo dei miei genitori è che gliene frega il giusto, sono super orgogliosi di me ma non vogliono parlare solo di quello ed è una cosa molto bella a livello umano».

Com’è stato il tuo Festival rispetto alle aspettative che avevi?

«Largamente superiore, una top 10 al primo giro per me era veramente impensabile, avrei riso se me lo avessero detto, non era minimamente nei piani. Sono infinitamente grato al pubblico ma mai mi sarei aspettato questo risultato. Mai».

Possiamo intuirlo ma te lo chiedo lo stesso: qual è il momento che vuoi bloccare di questo Sanremo?

«Ovviamente il duetto con Vecchioni e ti racconto un retroscena che mi piace molto: prima di salire sul palco lui ha visto che ero un fascio di tensione, ero sempre in piedi, camminavo, facevo chilometri avanti e indietro come faccio sempre quando sono nervoso, lui invece era seduto, tranquillissimo, allora si è avvicinato e mi ha detto: “Sarebbe disumano se non stessi così in questo momento, ma ti dico una cosa che mi ha detto una volta Gino Paoli – che già è un incipit incredibile – quando canti ci sei solo tu, non dimenticartelo mai”. Questa cosa per me è stata emotivamente incredibile, così ho scelto di togliermi l’in-ear quando ho cantato per sentire la voce del professore con le mie orecchie, che è una cosa da pazzi, perché ti senti male, potresti cantare male, “Tanto – mi sono detto – è un pezzo in cui serve metterci cuore, quindi mi tolgo l’auricolare e andiamo dritti”.»

Effettivamente all’inizio questa grande emozione si è notata, la percezione nei primi momenti è che non avessi i muscoli per reggere un duetto del genere, poi l’esplosione del rappato è arrivata come una liberazione, è stata un successo…

«Il professore mi ha anche concesso di finire la sua poesia, è qualcosa di una enorme importanza emotiva per me, a prescindere dalla carriera che avrò me la porterò dietro tutta la vita».

Quale invece il momento che vuoi dimenticare?

«Finita la prima serata, quando sono andato a dormire, con tutta l’adrenalina che avevo addosso, nonostante avessi cantato bene, ci ho messo due ore ad addormentarmi, ero ansioso, pensavo: “Spero che il mio pezzo lo cantino già”. Che su trenta canzoni è un’aspettativa folle, super ingenua, Non so spiegarti perché mi sia arrivata, perché razionalmente la capivo, ma mi è salita questa pressione de “Il pezzo è uscito, speriamo che piaccia, speriamo che convinca”. Io me ne sono sempre fregato se i miei pezzi piacessero o meno, però a Sanremo lo devi cantare altre tre volte, se il pezzo non piace diventa una condanna. Quindi quella è stata una sensazione veramente brutta».

Passiamo al disco. L’esigenza di mettere al centro del disco l’amore è più tua o più generazionale?

«Io mi auguro la seconda, però parte da me, perché abbiam vissuto anni davvero pieni di aggressività, di fragilità e di egocentrismo. Anche nella musica c’è tanto, troppo, egocentrismo, troppo amor proprio e mi piaceva allora fare un disco che parlasse proprio dell’amore degli altri, infatti non ci sono quasi mai storie autobiografiche; l’amore, ma non solo quello sessuale, anche tra amici, tra parenti, un amore molto più universale. Io credo che nei prossimi anni, spero il prima possibile, il miglior modo di non estinguerci sarà smetterla di essere così ansiosi ed egoriferiti, e lo dico soprattutto alla mia generazione perché siamo troppo concentrati su noi stessi, e provare ad aprirci un po’ di più agli altri. Io sto facendo questo lavoro da un po’ di anni e spero che tutti lo facciano, perché siamo davvero una generazione che coi social sta vivendo dei problemi emotivi che dopo il Covid si stanno cominciando ad evidenziare». 

Vivi con serenità la responsabilità di rappresentare un’intera generazione?

«In realtà no, semplicemente perché ho sempre scritto per me e continuerò a farlo per me. Io scrivo canzoni per me stesso perché ho iniziato che la musica era la mia migliore amica e voglio mantenere questa dimensione di gioco, di divertimento. Poi non ho mai mentito su me stesso, quindi se questa cosa è generazionale mi fa molto molto piacere, però non è un obiettivo, non è una responsabilità; sicuramente è una responsabilità quella di voler essere un buon esempio, essere la versione migliore di me per le persone che mi seguono. Ma dal punto di vista musicale io scrivo quello che mi piace, non sento questo bisogno di mandare alle genti, come un messia, dei messaggi, io scrivo canzoni per me, poi se piacciono bene».

L’impressione è che tu stia riuscendo a far convivere una leggerezza di fondo con una complessità nel suono che si sta facendo sempre più maturo…

«Considera che questo è un disco scritto un po’ in Italia un po’ in America, le mani che ci hanno lavorato sono tante e molto talentuose. Sono felice di aver collaborato con Antonio Di Santo, che ha curato la direzione creativa dell’album, sono stato fortunato, nella scelta dei suoni ha messo tutta la sua esperienza ed io mi sono lasciato molto molto guidare. È un disco che aveva originariamente più di venti canzoni, è stata una scrematura molto importante, è un viaggio musicale che dura da tre anni, spero possa essere un passo in avanti verso ciò che voglio diventare, cioè un artista folk».

Di questi tempi è una prospettiva insolita quella del folk…

«Io sono cresciuto con i video di MTV, con il primo Ed Sheeran e The Lumineers, tra l’altro Jeremiah Caleb Fraites vive a Torino, ha visto Sanremo e mi ha scritto per farmi i complimenti per “Vai!”, è stata una cosa incredibile. Io ho un legame emotivo con MTV, mi ricordo i video ed ero folgorato; forse anche per la mia provenienza da Genova, oggi se dici folk pensi a Guccini, ai Nomadi, a De Andrè, ma provare a rinnovare il genere, anche con più leggerezza, sia chiaro, senza quell’impegno sociale e politico, credo che sia un esperimento molto interessante».

C’è una grande intimità nel disco…

«Ho cercato, anche inserendo gli audio dei miei amici in diverse tracce, di renderlo una fotografia. Per me è un’occasione di crescita un disco; ho cercato di essere generazionale ma anche intimo. È facile diventare insipido facendo pop, ho cercato di non cascare nella trappola».

In cosa ti senti maturato come artista?

«In primis a livello emotivo, io ho iniziato questo lavoro a 17/18 anni, non avevo i mezzi per capire cosa stessi facendo e il Covid è stato un momento molto duro. Dopo siamo ripartiti ed io oggi voglio diventare la mia miglior versione possibile, sono fiero di come sto crescendo a livello umano, ed a livello artistico poi questa cosa va in parallelo».

Cosa ti piacerebbe restasse di questo disco a chi lo ascolta?

«Spero possa emozionare, perché comunque è un disco molto emotivo, sembra leggero ma c’è tanta commozione, spero possa diventare colonna sonora di momenti importanti nella vita di qualcuno. A me piace fare pop perché quando sei trasversale si creano delle cose incredibili, le tue canzoni possono diventare parte della crescita della vita delle persone, come per me è stato con Jovanotti e Max Pezzali, se dovessi creare dei momenti così nelle persone ne sarei molto orgoglioso».

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