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Il generale Roberto Jucci: «Dovevo intervenire per salvare Aldo Moro: così mi tolsero di mezzo»

04 Marzo 2024 - 04:54 Redazione
aldo moro francesco cossiga generale roberto jucci
aldo moro francesco cossiga generale roberto jucci
«Il mio più grande rammarico sul caso è quello di non avere capito che venivo strumentalizzato»

Il generale Roberto Jucci, 98 anni, è stato al vertice del servizio di sicurezza dell’esercito e comandante dei carabinieri. È stato l’uomo di fiducia di molti politici della Prima Repubblica come Francesco Cossiga, Bettino Craxi, Giovanni Spadolini. E non è stato mai sentito dalle commissioni parlamentari sul caso del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro. Oggi in un’intervista a Repubblica spiega che all’epoca era solo un generale: «Nel 1978 ero capo del Secondo reparto dello Stato Maggiore dell’Esercito che si occupava di sicurezza, più spesso noto con la sigla Sios». E ricorda con Gianluca Di Feo: «Il mio più grande rammarico sul caso Moro è quello di non avere capito che venivo strumentalizzato. Nel senso che mi avevano messo nell’angolo e mandato via da Roma per non vedere e non operare».

Non vedere e non operare

Jucci dice che Cossiga gli chiede di creare «un reparto dell’Esercito che potesse intervenire per liberare Moro quando fosse stata individuata la sua prigione. Dovevano operare con una precisione millimetrica per non rischiare la vita dell’ostaggio. Mi diede una settimana di tempo. Io ho preso gli incursori del leggendario Col Moschin, ho acquistato armi sofisticate in Gran Bretagna e in Germania e li ho fatti addestrare senza sosta in una base segreta all’interno della tenuta presidenziale di San Rossore. Cossiga mi domandava continuamente se erano pronti. Gli ho detto: “Ministro venga a vedere di persona”. Durante il viaggio per l’ispezione, senza preavviso, gli incursori fecero un agguato al suo corteo e immobilizzarono la scorta: a Cossiga stava venendo un infarto». Ma secondo lui nell’incarico c’è sempre stato qualcosa di strano: «Non so se lo fecero per togliermi fuori dal campo a Roma. Perché io così passai praticamente tutti i giorni del rapimento in Toscana nella tenuta di San Rossore per predisporre questa squadra che non è mai entrata in azione».

La Loggia P2

E aggiunge: «Mi tolsero di mezzo. E non so se questo fu fatto apposta. Perché allora gran parte dei vertici delle Istituzioni militari erano della P2. E su quella loggia io oggi ho molti pensieri: perché la P2 era espressione di un gruppo di potere di un Paese straniero, amico sicuramente ma che aveva altri interessi». Jucci parla degli Stati Uniti. O meglio di «centri di potere americani che operavano anche attraverso elementi della P2». Secondo Jucci la lista di Gelli non era l’elenco completo: «Nell’elenco c’erano persone amicissime di altre che non comparivano nella lista. La cosa non mi è mai tornata. Bastava esaminare le carriere che hanno sponsorizzato per farsi un’idea… La P2 era uno Stato nello Stato!».

Federico Umberto D’Amato

Poi il generale ricorda Federico Umberto D’Amato: «Era un’anguilla, da quando era vicecommissario della polizia imperava nell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Quando nel 1986 sono arrivato al vertice dei carabinieri, sono andato ad Arezzo e ho chiesto di Gelli al comandante provinciale dell’Arma. Lui mi disse: “Qui molti dei responsabili delle istituzioni sono stati voluti da Gelli. Il mio impegno più gravoso è stato far ricevere generali la domenica da Gelli”. Rimasi senza parole». Per Moro, ricorda, aveva un affetto filiale: «Ricordo ancora quando l’ho accompagnato nell’incontro con Gheddafi per discutere delle condizioni degli italiani in Libia e di altri problemi: il principale era l’importazione a prezzo speciale del greggio libico quando era prezioso, poiché il Canale di Suez era bloccato. Ho avuto con Moro vari colloqui, spesso mi chiedeva opinioni».

I pedinamenti

Dice che nel sequestro Moro avrebbe fatto pedinare «coloro che andavano a portare le lettere di Moro al suo segretario Freato e ad altri soggetti. Avrei cercato di trovare supporto nei Paesi arabi che forse avrebbero potuto trovare un canale utile per la sua liberazione. Avrei tentato l’intentabile per salvarlo. Probabilmente non ci sarei riuscito, ma avrei tentato di tutto». Ma «non ci fu un coordinamento. E purtroppo ci si affidò a quel gruppo che consigliava Cossiga per portare avanti le operazioni. Cossiga era consigliato da un uomo mandato dagli Usa e dalla commissione composta in gran parte da piduisti. Tutte persone che a mio avviso volevano che le cose andassero in una maniera diversa da quella che tutte le persone oneste chiedevano. Moro doveva essere distrutto politicamente e fisicamente: se Moro fosse sopravvissuto la politica dell’Italia avrebbe avuto uno sviluppo diverso da quello che è stato. Credo che si sarebbe potuto liberare Moro, se tutte le istituzioni avessero operato in questa direzione. Ma l’apertura di un governo, sostenuto da Moro, formato da comunisti e democristiani era osteggiata sia dagli Usa e sia per altri motivi dall’ex Unione Sovietica».

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