Le denunce delle suore violentate dai preti, la storia di suor Giusi: «Il primo che abusò di me oggi è parroco in Belgio»

Le suore vittime di violenze sessuali potrebbero essere più di 75 mila nel mondo secondo la teologa tedesca Doreis Reisinger

Le suore vittime di violenze sessuali potrebbero essere più di 75 mila nel mondo. I dati a disposizione sono scarsi, fa sapere la teologa e filosofa tedesca Doris Reisinger, nonché ex suora della famiglia spirituale Das Werk, ma un’indagine degli Stati Uniti del 1998 riferisce che il 30% delle suore ha subito una forma di abuso. Il 12,5% ha subito una violenza sessuale. «Gli Stati Uniti negli anni ’90 non sono il contesto nel quale ci si aspetterebbe numeri particolarmente elevati di violenze contro le donne in generale, e sulle suore cattoliche in particolare, quindi possiamo supporre che questi numeri siano più alti in altri luoghi e in altri periodi. Se applichiamo questi numeri alle circa 600mila suore che ci sono nel mondo, se ne può dedurre che 180mila di loro hanno subito qualche forma di abuso, 75mila un abuso sessuale, 30mila sono state vittime di stupro sessuale genitale», spiega la teologa in un’intervista a la Repubblica. Puntualizzando che non si tratta di un problema marginale, ma sistematico. E che oltre alla violenza fisica, vi sono altre forme di abuso: da quella psicologica allo sfruttamento finanziario. E, a suo dire, la Curia romana e Papa Francesco, pur essendo consapevoli del problema, «non agiscono per fermare o prevenire gli abusi».


La testimonianza di Suor Giusi

Suor Giusi (nome di fantasia), 73 anni, ha vissuto abusi e violenze di ogni genere. Dal clima severo e violento che ha subito durante il percorso da novizia fino a quando, a 38 anni, subisce il primo stupro da un sacerdote, mentre era in missione in Africa. «Ricordo il dolore fisico, il dolore morale, il dolore di tutto. E poi ero terrorizzata di essere rimasta incinta», racconta la donna, che all’epoca non riuscì a denunciare. Oggi, racconta la suora, quell’uomo è un parroco in Belgio. Ma quello non fu l’unico caso di abuso subito. Quando torna in Italia, suor Giusi riprende a lavorare in una clinica romana privata molto importante a Roma. Una sera, il padre provinciale insiste per accompagnarla a casa in macchina, ma durante il viaggio lui accosta e la molesta. Quella volta trova la forza di raccontare quanto accaduto alla superiora, e lui viene trasferito. Ma dopo un po’ lo riportano a Roma. Suor Giusi scopre che erano molte le donne che sono state assaltate da lui. Ma, riporta ancora la Repubblica, la donna racconta che tra i violenti ci sono anche nomi di un certo calibro. Uno è «un sacerdote importante, rettore di un’università cattolica, amico di ministri e cardinali». Una volta lei gli portò un lavoro accademico e lui la molestò. Anni dopo l’ha denunciato ai superiori, ma riferisce che nessuno ha mai fatto niente. A un certo punto nel 2000 Suor Giusi lascia le vesti ed torna dalla famiglia senza ricevere, però, alcuna lira dalla chiesa. Anni dopo ha trovato il coraggio di denunciare e raccontare la sua storia, ma tutti gli uomini violenti che ha incontrato non hanno mai pagato perché in vita sono stati protetti e poi sono morti.


Il nodo della sicurezza finanziaria

Secondo la teologa tedesca Reisinger, un primo passo per rompere questo sistema è quello di «cambiare le norme che regolano la vita consacrata in modo da mitigare efficacemente la dipendenza delle suore dalle loro congregazioni. La sicurezza finanziaria è fondamentale. Oggi le suore dipendono completamente dalle loro congregazioni». A suo avviso, «il denaro e la sicurezza finanziaria sono fondamentali per prevenire e affrontare gli abusi: una suora che ha i mezzi per andarsene non accetterà gli abusi con la stessa facilità di una suora che non ha nessun posto dove andare e niente per mantenersi. Inoltre – aggiunge – è una questione di diritti umani fondamentali e di giustizia che le donne che hanno lavorato per la Chiesa, alcune per decenni, non vengano lasciate senza un soldo quando decidono di lasciare la vita consacrata».

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