Kulusevski e gli anni alla Juventus: «Mi sentivo in imbarazzo, inutile, con la sensazione di aver fallito. Poi la svolta al Tottenham»

L’esterno svedese, 23 anni, ha voluto ringraziare in una lunga lettera i tifosi inglesi, ripercorrendo gli alti e bassi della sua carriera

Con una lettera a cuore aperto – e a sorpresa – ai tifosi del Tottenham, Dejan Kulusevski si prende tutto il tempo per ripercorrere la sua carriera fino ad ora e ringraziare la squadra e i supporter inglesi. Perché dopo aver attraversato un difficile periodo alla Juventus, dopo essersi finalmente ambientato in Italia, lo svedese oggi 23enne ha dovuto ricominciare tutto da capo a Londra, agli Spurs allenati in quel momento da Antonio Conte. Per ritrovare se stesso e rispondere alle critiche della sorella, che seppur «brutali», sono le uniche che ascolta. L’avventura di Kulusevski in Italia è iniziata appena 16enne, e non è stata facile. «I primi sei mesi sarei voluto tornare a casa molte volte», confessa nella lettera su The Players Tribune, «c’è stato un problema con la mia registrazione e mi sono anche infortunato, quindi non ho giocato una partita per un anno intero. Vivevo in una piccola stanza con un letto, una TV e un bagno. Andavo a scuola sette ore al giorno, ma non capivo niente, quindi mi sedevo lì e scrivevo rime e formazioni di calcio, annoiato a morte. Una volta tornato a casa, guardavo la TV o parlavo con mia madre per ore». Poi impara l’italiano e le cose migliorano, ma dopo qualche brutta prestazione in Serie A torna nell’under 19 dell’Atalanta. In quella fase è però motivato a rendere al meglio, conquista il campionato Primavera e si distingue con il Parma in Serie A. A quel punto, arriva la chiamata della Juventus.


L’esperienza alla Juventus

Forse era troppo presto, forse il sistema di gioco non lo premiava, forse non era destino. Fatto sta che l’ala svedese fatica tantissimo a vedere il campo. E inizia a credere a chi lo critica, inizia a credere di non essere un giocatore da Serie A. «Non ho giocato da titolare alla Juventus per quasi 6 mesi», ricorda Kulusevski, «ti senti malissimo, perché hai dato la vita per giocare a quei livelli, allenandoti più duramente che puoi, e finisci per guardare giocatori giocare nel tuo ruolo che non sono nemmeno ali. Onestamente, mi sono sentito imbarazzato, persino inutile. Alcune persone cominciarono a dire che non ero abbastanza bravo, che ero troppo lento. E ti colpisce, al 100%. È normale, è umano. Quando inizi a crederci, quello è proprio il diavolo». Kulusevski si fida solo del giudizio di sua sorella maggiore Sandra, e anche il suo è spietato: «Da quando sei diventato debole?». Capisce che a Torino non può rimanere, ha bisogno di una nuova squadra e di un nuovo ambiente dove poter tornare ai suoi livelli. E quando l’agente gli dice dell’interessamento del Tottenham prende letteralmente il primo aereo per Londra e firma con gli inglesi. È in prestito, deve guadagnarsi la maglia e la conferma. Gli inizi però non sono promettenti. «La Premier League va 300 volte più veloce di qualunque altro campionato al mondo e nel primo allenamento non ho capito niente. I giocatori mi passavano accanto, Conte urlava e indicava», racconta ancora l’attaccante, «non dimenticherò mai la mia prima partita: entro sul 2-1 per noi, in cinque minuti subiamo due gol e perdiamo il match». Anche nell’incontro successivo non brilla, gli Spurs perdono e lui rimedia un cartellino giallo. Ma poi viene scelto come titolare contro il Manchester City. «Dopo tre minuti segno, ed è come se mi cadessero 30 chili dalle spalle», scrive ancora Dejan, «nei minuti di recupero, sul 2-2, metto un cross per Harry, che mette in rete di testa. Tutti iniziano a correre verso di lui, ma io sono dall’altra parte, quindi mi giro, guardo i tifosi e urlo mentre più forte che posso. Quel momento è stato uno dei più felici della mia vita. È la cosa più viva che abbia mai sentito in vita mia. Ricordo di aver pensato: Non mi importa più di nessuno. Nessuno potrà dirmi ancora una volta che non posso giocare a questo gioco. Nessuno può dirmi cosa posso e cosa non posso fare». Tranne la sorella Sandra: «Era felice anche lei, mi disse: “La tua prima partita buona in tre mesi”».


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