Inchiesta Armani Operations, dall’azienda in subappalto: «Le cinture vendute a 15 euro, per eludere i controlli ci chiudevano in sgabuzzino»

Un testimone ha raccontato al Corriere della Sera la sua esperienza come dipendente in una ditta che produce accessori per noti marchi

L’inchiesta con cui il tribunale di Milano ha messo in amministrazione giudiziaria la Giorgio Armani Operations, azienda del gruppo Giorgio Armani spa, ha scoperchiato un sistema di sfruttamento che ora si allarga fino a lambire altri marchi nel settore degli accessori di pregio. Come in una ditta specializzata in cinture. «Realizziamo accessori in pelle per i principali designer globali sin dalla nostra fondazione nel 1978», dichiarano nella presentazione sul loro sito aziendale, come riporta il Corriere. Ma le cinture, ricostruisce il quotidiano, spesso griffate da nomi noti del mondo della moda, sarebbero state fabbricate da lavoratori pagati pochi centesimi.


La testimonianza

Un testimone ha raccontato al Corriere della Sera: «Ricordo che dal 2003 al 2010 lavoravo come azienda “Confezioni Angela” (…). All’epoca assemblava cinture dei noti marchi (…). Ha contratti di appalto per la produzione delle cinture e dei prodotti, per questi contratti rimette direttamente la fattura agli stessi marchi come se la merce fosse stata prodotta e assemblata da lei stessa. Per ogni cintura confezionata paga più o meno 60 centesimi, il costo di manifattura e confezionamento, rimettendo poi il prodotto con apposita fattura ai committenti con ricarico di materiale prodotto, manodopera e confezionamento e trasporto per circa 15 euro a cintura».


«Ci fecero nascondere»

E ancora: «Un giorno si presentarono degli agenti di controllo qualità di un marchio molto importante, ma un’impiegata (…) ci fece nascondere in un angolo dell’ufficio a luci spente». L’inchiesta della procura milanese si concentra sulla presunta inerzia della Giorgio Armani Operations nel «prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo» nella catena produttiva a livello delle aziende subappaltatrici. In questo quadro, secondo le carte dell’inchiesta, l’azienda citata dall’ex dipendente dispone «solo nominalmente di adeguata capacità produttiva e può competere sul mercato solo esternalizzando a sua volta le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere i costi ricorrendo all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento». 

La versione della società

L’azienda, dal canto suo, ha voluto rispondere al quotidiano. «La nostra azienda intende dichiarare sin da subito che nessun tipo di provvedimento giudiziario è pervenuto alla stessa e nemmeno è stata attinta da altre tipologie di contestazione di qualsivoglia natura in ordine alla predetta vicenda. Stupisce, peraltro, che su un’indagine attuale vengano ripercorsi asseriti episodi cronologicamente collocati fra il 2003 ed il 2010, ovverosia quasi quindici anni or sono». Aggiungono che ditta e suo rappresentante legale «non hanno mai subito, nemmeno in passato, alcun provvedimento di condanna per reati relativi allo sfruttamento di lavoratori. Pertanto, a tutela della propria onorabilità, è stato dato mandato all’avvocato Andrea Locatelli dello studio Locatelli&Partners di valutare ogni più opportuna azione nei confronti di chi, mediante dichiarazioni, ha recato un ingiusto danno reputazionale all’azienda, che è presente sul mercato da oltre quarant’anni e che opera con serietà ed impegno». 

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