Dai riti regionali ai casi televisivi, ecco la scienza della bestemmia: «Sfottò duro a morire, ma ormai quasi per nessuno è blasfemia»

Cinque studiosi firmano «Non c’è bestemmia. Scritti sul parlato riprovevole» e “scagionano” gli italiani volgari

Le bestemmie? Certo si dicono in molte regioni d’Italia, e da secoli. Ma ormai molto di rado con intenti blasfemi. Lo sostengono cinque studiosi – Florio Carnesecchi, Pietro Clemente, Paolo de Simonis, Luciano Giannelli, Gianfranco Macciotta e Giovanni Pieri – in un volume appena pubblicato che scandaglia proprio riti e sotterranei dietro l’uso di espressioni ingiuriose contro la divinità. La loro riflessione, hanno raccontato nei giorni scorsi a La Nazione, ha preso le mosse da un caso di cronaca televisiva: l’esplosione dal Grande Fratello Vip di Stefano Bettarini. Correva l’anno 2020. Da lì è partita un’esplorazione a ritroso sino all’800, dentro allo studio «Non c’è bestemmia. Scritti sul parlato riprovevole». Per scoprire appunto che in molti casi e abitudini radicate gli italiani usano la bestemmia come «intercalare volgare», non come reale attacco blasfemo. Quella con questo fine «appare quasi del tutto estinta», secondo l’antropologo De Simonis. Mentre oggi «resta molto più la forza espressiva che non il contenuto anti-religioso». Ma quali sono le regioni dove si bestemmia di più? Quelle tradizionalmente “rosse”, sottolinea non senza malizia Il Giornale. Ma senza dubbio pure il Veneto, che ha invece ben altre radici, saldamente legate alla matrice cattolica. Resta il fatto che da Bettarini in giù la bestemmia oggi «a tutti gli effetto può non essere ritenuta blasfema, a patto che chi la pronuncia non lo faccia per insultare Dio».


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