Europee, l’intervista a Donazzan (FdI): «Vannacci ha ragione». L’aborto? «Non è un diritto uccidere un bambino». E i gay pride «sono una violenza»

Una lunga conversazione con l’assessore, che punta all’Europa ma non esclude, il prossimo anno, di succedere a Zaia alla guida del Veneto

L’assessore – preferisce che il titolo non sia declinato al femminile – Elena Donazzan è una veterana dell’amministrazione del Veneto. È stata eletta consigliere regionale, la prima volta, nel 2000. Ai tempi era un’esponente di Alleanza nazionale. Da allora, non ha steccato una tornata elettorale: 24 anni a Palazzo Ferro Fini, di cui 19 nel ruolo di assessore per le diverse giunte che si sono succedute. Lei è diventata una costante per la destra, in un territorio profondamente leghista. Sulla sua pagina Wikipedia in lingua inglese, si legge: «She is the current longest serving regional minister, as well as one of the longest serving ones in Venetian politics». Urna dopo urna, si è conquistata la nomea di campionessa di preferenze e, adesso, metterà a disposizione il suo consenso personale per la sfida europea di Fratelli d’Italia. «Io non arretro sui miei valori – dice a Open – e voglio portarli a Bruxelles». Valori e battaglie che, spesso, l’hanno portata al centro di polemiche nazionali. Come il suo biasimo dell’antifascismo, le critiche ai gay pride, le posizioni sul fine vita e sull’aborto.


Innanzitutto, la devo chiamare assessora, assessore o, come “Giorgia”, con il nome di battesimo?


«Assessore, perché il ruolo non è declinabile. Amo la lingua italiana e ho sempre fatto delle battaglie su questo. Quando mi chiamano “assessora”, tendo a correggere l’interlocutore. Anche se con il tempo mi sono ammorbidita sulla questione: ecco, vorrei che ciascuna venisse chiamata con il nome che vuole. E io preferisco assessore».

Dopo 24 anni di amministrazione locale ha deciso di candidarsi per Strasburgo. Perché?

«Mi considero una sorta di anomalia del sistema. Sono l’assessore più longeva d’Italia. Sono sempre stata eletta a preferenze, quindi questo mi dà anche una certa forza. Comunque, le confesso: se mi dicessero “lei può scegliere di fare quel che vuole”, io farei a vita l’assessore al Lavoro del Veneto. Solo che non è possibile, per tante ragioni. Partiamo da un presupposto. In questo momento, il Veneto ha un forte impatto sulla politica nazionale e qui Fratelli d’Italia è stato il partito più votato alle elezioni del 2022. Dopo Tangentopoli, questo territorio è sempre stato leghista. Leghista fino in fondo, leghista in ogni angolo. Quasi si pensava che fosse una condizione consustanziale: il Veneto è Lega. In questi ultimi anni, invece, l’approccio è cambiato molto».

«Il Veneto può esprimere un valore significativo per Fratelli d’Italia. Perché l’Europa, mi chiedeva? Perché c’è appunto un tema di partito, che deve rappresentare un territorio con questa forza economica e politica. E poi per una questione di competenze individuali. Dopo questi 24 anni in Consiglio regionale, di cui 19 li ho fatti da assessore all’Istruzione e al Lavoro, ho maturato delle competenze specifiche: le Regioni italiane si occupano di Europa, prima di tutto perché gestiscono i fondi comunitari. Peraltro Giorgia Meloni mi ha conferito l’incarico di guidare il dipartimento Imprese e mondi produttivi. Segno che Fratelli d’Italia guarda al dinamismo del Nord-Est. In sintesi, la mia candidatura si poggia su tre pilastri: competenze maturate, un partito che è cresciuto e un’area geografica che, sotto l’aspetto economico, ha bisogno di un’Europa diversa».

Ci dica un pregio di questa Europa e un difetto.

«Il pregio, che è anche una criticità, sono i tanti soldi. L’Italia è un contribuente attivo dell’Europa: vuol dire che diamo più di quanto riceviamo. Il Regno Unito era un contribuente passivo: riceveva più di quanto dava. L’uscita del Regno Unito dal quadro europeo ci dice che si devono rigenerare degli equilibri. Cioè, per me, oggi l’Europa vuol dire “tante risorse da gestire meglio sui territori”. Operazione in cui l’Italia può avere una voce più importante, autorevole e sentita. Questo, non so se sia un pregio, ma è sicuramente un valore».

Le criticità?

«Ci servirebbero delle ore per declinarle. Volendo fare una sintesi, premettendo che considero un valore stare in Europa, io credo che le criticità maggiori siano due. Primo, l’aver denegato le identità territoriali delle Nazioni. Secondo, la traiettoria intrapresa dall’Unione europea, che è diventata una tecnostruttura e basta. L’interesse che tiene insieme l’Europa non può essere solo di tipo economico-finanziario, ma credo che debba essere di tipo valoriale. A torto, oggi si parla spesso di “Occidente”, mentre dovremmo parlare di europeismo, come i padri fondatori avevano immaginato. Poi ci si è allontanati da questo concetto. Le Nazioni, che hanno tutte delle bellissime culture di riferimento, in realtà stanno insieme soprattuto grazie alla comune matrice giudaico-cristiana. Perciò, credo che sia una criticità, oggi, non sottolineare quell’identità. È una criticità avere una tecnostruttura che ti dice “dobbiamo avere tutti le auto elettriche”, quando la rete elettrica non può sostenerle e quando tutto viene prodotto fuori dall’Europa. Quindi sì, quella tecnostruttura è il più grande difetto».

Avrei voluto chiederglielo più tardi ma, visto che ha parlato di matrice giudaico-cristiana, anticipo la domanda. Senza tornare al caso specifico della scuola di Pioltello e della chiusura per la festa di fine Ramadan, crede che in generale ci sia una sorta di processo di islamizzazione dell’Europa? Se sì, ci dica quali misure promuoverebbe da europarlamentare.

«Sì, è in corso un processo di islamizzazione e io lo vedo come un pericolo. Il fondamentalismo islamico è il nostro primo problema culturale. O forse lo metterei al secondo posto rispetto al fatto che gli europei e gli italiani stanno facendo una marcia indietro autolesionistica sulla nostra grande cultura. Una cultura classica e scientifica, che tiene insieme Galileo con Leonardo Da Vinci, con Dante. Quella grande cultura che oggi ci consente di ritenere l’Europa uno dei luoghi del mondo dove il rispetto della persona vale più di tutto, dove la tolleranza è un grandissimo valore. Ecco, con questo approccio di arretramento, forse inconsapevole ma certamente autolesionistico, oggi stiamo facendo avanzare qualcun altro. Non esistono spazi vuoti: lo diceva qualcuno per la politica, ma in vale in generale».

«Non esistono spazi vuoti, tanto fisici quanto di pensiero. Quello spazio vuoto di pensiero debole viene soppiantato dal pensiero forte. Ed è indubbio che il fondamentalismo islamista e islamico lo sia, anche perché arma letteralmente delle persone, soprattutto giovani. Sono dei disperati? No, sono fomentati. Che è un concetto a noi completamente estraneo, proprio per quell’approccio culturale che abbiamo, che è cristiano, classico, di pensiero critico e di tolleranza dell’altro. Questa problematica come si affronta? Rimettendo al centro i valori. Io sarò vessillifera sul punto della cultura giudaico-cristiana. L’ho già fatto in questi anni da assessore all’Istruzione: non ho voluto imporre la mia personale visione del mondo, che è piuttosto netta, ma ho cercato di valorizzare l’identità della mia terra, di guardare a ciò che ha generato valore. Se ha generato valore, io lo devo mantenere tale».

Come si coniuga questa sua idea con il concetto di inclusione?

«Noi siamo multietnici, ma non dovremmo essere multiculturali. Per me il concetto di inclusione si sostanzia in questo: la massima tolleranza è proporti di venire a vivere a casa mia, accettarti, ma le regole e il comportamento sono quelli di casa mia. Ecco, questo banalissimo assunto, nonostante sia semplicistico, si declina in termini culturali con tante riflessioni. La prima è che c’è una religione che ha costruito le fondamenta dell’Europa, quella giudaico-cristiana: allora ci deve essere un’Europa dei campanili e delle chiese, della tolleranza. Chi viene qui, deve rispettare la nostra religione. Su questo non faccio sconti».

Le richieste di costruzione di nuove moschee, per garantire la libertà di culto alla crescente comunità musulmana, sono da ostacolare o da agevolare?

«Io ho rispetto per la visione spirituale del mondo. Ma questa è una questione prima di tutto politica, poi spirituale. Siamo nel campo della politica e constato che manca il principio di reciprocità. Altrimenti finiremmo per considerare la religione islamica senza distinguo tra potere temporale e potere spirituale. Ed è un problema. Quindi la reciprocità deve essere tra Stati: vuol dire che non posso considerare le moschee un diritto tout court, per quanto io sia rispettosa della spiritualità e della religione degli altri. Ma in uno Stato laico, perché questo è l’Italia e lo è anche l’Europa, deve valere il principio di reciprocità. Significa che io costruirò una moschea qui quando potrò avere la mia libertà di costruzione di chiese là, in quegli Stati dove oggi non è permesso. C’è anche un secondo tema, ovvero quello di regolamentare ciò che accade dentro questi luoghi di preghiera. Non li chiamo più luoghi di culto, ma luoghi di preghiera che esistono anche nella nostra religione – Donazzan cita il Vangelo di Matteo – “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Purtroppo, i luoghi di preghiera islamica spesso diventano scuole coraniche, dove vengono fatte predicazioni che noi non comprendiamo».

La preoccupa?

«Certo. Per me ci deve essere l’obbligo di utilizzare la lingua del Paese dove sorgono questi luoghi. In Francia, devono parlare in francese, in Italia, in italiano: io devo poter sentire e capire se tu stai armando contro di me qualcuno che è nel mio territorio. Attenzione perché le scuole coraniche stanno crescendo moltissimo. Alla mattina queste famiglie mandano i loro bambini nelle scuole italiane, mentre nel pomeriggio vengono “educati”. Sarebbe molto bello se fosse solo un’educazione alla loro cultura: io non sono per lo sradicamento delle persone, inorridisco quando si devono recidere le radici o delegare. Ma se tu stai in una terra che ha le sue regole e ti ha accolto, tu devi rispettare le mie regole. Torno al concetto di prima: la moschea no. No finché non vi sarà un principio di reciprocità tra Europa e i Paesi di religione islamica. Il principio di reciprocità è fondamentale, così come quello del poter controllare ciò che viene detto nei luoghi di preghiera islamica. Atteso il fatto che tutti i fondamentalismi, tutti i terrorismi, purtroppo, hanno quella matrice».

Torniamo un attimo sul percorso iniziale dell’intervista e parliamo della sua esperienza in Regione. Lei per tutti questi anni è stata l’esponente di spicco di Fratelli d’Italia, in un territorio dove spadroneggia la Lega. È stata dura?

«Guardi, le rispondo veramente con un bel sorriso, perché sono da dieci anni l’unica che tiene il tricolore saldamente in mano in giunta regionale. Quando qualche anno fa la Lega era molto più aggressiva su alcuni temi, mi venne chiesto dai colleghi “Ma tu sei più veneta o più italiana?”. Io risposi allora e continuo a rispondere ponendo un’altra domanda: “Vuoi più bene a tua madre o a tuo padre?”. È impossibile rispondere, impossibile. Io sono l’insieme di queste due identità. Ora, il Veneto è molto identitario, e anch’io lo sono: pensi che ho fondato un’associazione che si chiama “Amo il Veneto”. Più chiaro di così. Ma io so di essere l’esatta sintesi di queste due identità. Quando qualcuno vuole far prevalere una parte, spesso tradisce un complesso di inferiorità. Ce ne sono tanti di complessi di inferiorità che si traducono in aggressività. Ecco, io non ce l’ho, non ce l’ho. Sono orgogliosamente italiana. Sono orgogliosamente veneta. Mi porto queste due caratteristiche che mi rendono diversa da lei o da un campano. Per l’Europa vorrei un processo di sintesi delle sue identità, che non vuol dire fare passi indietro o cessioni di sovranità, come in molti hanno dichiarato in questi anni, alimentando quella tecnocrazia. Ma io vorrei che in Europa si sviluppasse un nuovo pannello di valori. Ecco perché è necessaria una costituzione valoriale tra tutti gli Stati membri, e non semplicemente una definizione di regole imposte da Bruxelles».

Luca Zaia, a differenza sua, ha deciso di concludere la legislatura in Regione, benché fosse stato corteggiato per candidarsi alle Europee. Ecco, qual è la sua posizione sul terzo mandato ai governatori?

«Io sono sempre stata contro il limite dei mandati, sarà che ne ho beneficiato e quindi sono pochettino di parte. Ma la Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo e la democrazia prevede l’espressione di voto. Addirittura per le regionali, che secondo me sono il miglior sistema elettorale in assoluto, la legge prevede la scelta della persona nella lista di un partito ed è già chiaro dall’inizio il presidente. Ecco perché è il sistema più stabile. Io sono favorevole al presidenzialismo che Giorgia Meloni chiede con forza e ha inserito nel programma di governo. Comunque, alla luce di questa mia esperienza regionale, una Regione non cade se non per mano giuridica. Quindi è stabile. Però questo presuppone anche il fatto che il presidente è una figura particolarmente importante, pesante. Ci sono sentenze della Corte che dicono che l’elezione diretta deve prevedere un limite di mandati».

«Quindi, io culturalmente sono contraria al limite dei mandati. Però, siccome la Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo, secondo i limiti previsti dalle leggi, prendo atto che le leggi impongono un limite ai mandati. Non è una questione di principio per me. E ne ho tante di questioni su cui non arretro di mezzo millimetro. Questa non lo è, pur avendo io espresso un voto in Consiglio regionale contro la proposta di Zaia di mettere il limite dei mandati. Perché il limite lo mise lui in Veneto, una beffa. Però resta il fatto che il cittadino, in piena espressione di libertà democratica, secondo me dovrebbe poter decidere se un governatore è meritevole del terzo, del quarto mandato. È brutto che ci sia una legge che impedisca a qualcuno di partecipare in virtù di un principio di alternanza. Mi preoccupa un po’ il fatto che si possa togliere per legge il migliore dalla piazza, quando invece la politica dovrebbe essere un esercizio di ricerca delle persone migliori».

In molti hanno creduto che lei potesse succedere a Zaia alla presidenza del Veneto. È un’ipotesi che esclude, qualora venisse eletta a Strasburgo? Oppure c’è uno spiraglio per un suo rientro in Regione Veneto dopo un anno all’Europarlamento?

«Io ho sempre sognato di essere il presidente della Regione del Veneto, per l’amore sconfinato che ho per questa terra, perché mi sento particolarmente legata. E questa competizione alle Europee misurerà anche il consenso del partito, confermando, anzi spero migliorando addirittura l’ottimo risultato alle politiche. Quindi, se Zaia non potesse più fare un altro mandato, Fratelli d’Italia potrebbe avere la disponibilità di candidarsi alla guida della Regione Veneto? Sì, possiamo dire realisticamente di sì. Io sono e sarò sempre a disposizione del partito e della mia terra. Oggi sono chiamata a fare le elezioni europee. Dentro il risultato delle europee ci sarà anche il test del consenso: vedremo se questo potrà essere utile. Comunque, direttamente o indirettamente, io sono la persona che ha governato più a lungo il Veneto, che conosce bene questa bellissima macchina amministrativa, molto onesta, molto capace. Un territorio che conosco palmo a palmo: mi metterò a disposizione comunque, anche per buoni consigli».

Se c’è una cosa che tutti le riconoscono è quella di essersi sempre esposta, anche andando contro la sua maggioranza in Regione. Le elenco alcune sue battaglie che l’hanno fatta conoscere in tutta Italia e poi mi dica se proverà a portarle in Europa. Cominciamo dalla legge sul fine vita: qual è il suo giudizio sul cosiddetto suicidio assistito?

«È stata una battaglia ideologica dei pro e dei contro, e per me non è così. Ci deve essere massimo rispetto per la sofferenza e anche per le persone che non hanno più speranza. Tutto ciò non può costituire un dibattito pubblico. Oggi, se qualcuno non ha più la forza di vivere, non ha più speranze, viene accompagnato con grande rispetto, senza clamore. Io non voglio le battaglie di clamore. Voglio poter dare una possibilità con le cure palliative, con l’accompagnamento, col non far sentire sola quella persona e quella famiglia, perché il tema del fine vita è stato usato come una clava ideologica e io questo non lo posso accettare. Spesso è la disperazione che fa dire “non ce la faccio più” a una persona e alla sua famiglia. Ecco, io vorrei che la domanda “ditemi come posso farla finita” vorrei che non esistesse. E se fosse così disperata la situazione io so già che c’è “chi accompagna”. Quindi, io continuerò a sostenere che non ci deve essere una legge sul fine vita, ma ci deve essere l’accompagnamento con le cure palliative, c’è l’accompagnamento alla famiglia e alla persona e c’è il rispetto nel silenzio dell’accompagnamento verso la propria morte».

Come tra le Regioni italiane c’è, purtroppo, il turismo sanitario, tra gli Stati membri ci sono Paesi dai quali si “emigra” per andare a morire all’estero. Non andrebbe omogeneizzata la disciplina su questo tema in Europa?

«Anche questo verbo che lei ha usato… no. Non si può. È quel tema pericoloso della tecnocrazia che va dentro la sfera etica della persona umana, di ciascuno. Non si può pensare di definire per legge questa cosa. Non si possono avere le cliniche della morte. C’è un libro del 1870, Il padrone del mondo, in cui teorizzavano le cliniche della morte. Guardi, è inquietante vedere quanto è attuale. Ma lì c’era un presupposto terribile, ovvero Dio era stato espulso dalla vita: è questo a generare disperazione. Lei sta parlando con una persona molto cristiana quindi, purtroppo, io non posso venirle incontro su questo. Finché ci sarà una speranza io cercherò di darla a quelle persone, accompagnandole, non forzandole a vivere, ma accompagnandole a trovare una scelta per vivere».

Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che riconosce il diritto all’aborto come un diritto fondamentale per i cittadini dei Paesi membri. Nulla da eccepire?

«Molto da eccepire. Non è un diritto fondamentale uccidere un bambino. Il diritto fondamentale è provare a dire a quella mamma che quel bambino lo aiuteremo a crescere insieme a lei, se fosse così disperata da non poterlo fare. O che qualcun altro si prenderà cura di lui. Io non so come si possa pensare di uccidere una creatura così inerme da non avere neanche la voce. Lo trovo incredibile».

Cosa pensa del matrimonio egualitario, dell’adozione per le famiglie omogenitoriali, della necessità di un ddl Zan contro l’odio? In generale, crede che i diritti delle persone appartenenti alla comunità Lgbt siano rispettati in Italia e in Europa?

«Credo che non ci sia violazione dei diritti, anzi alle volte io mi sento minoranza quando esprimo qualche pensiero. Come, ad esempio, quando dico che un bambino ha diritto a un papà e una mamma. E lo dicono tutti i testi di pedagogia, non lo dice mica Donazzan. Perché se facciamo una domanda a qualsiasi figlio, “avresti voluto vivere solo con un papà, una mamma, o due papà o due mamme?”, risponderebbe “no io voglio la mamma e il papà” con il loro ruolo di riferimento, con il loro accompagnamento alla vita. Trovo aberrante che si parli di diritti per tutta questa comunità, che oggi si fa fatica anche a definire, lgbtq eccetera, perché tanto non siamo più neanche un genere…, è la contraddizione del termine naturale del “chi sei”. Tu in seguito ti puoi affermare per come sei, ma innanzitutto tu sei, poi cerchi di cambiare la tua vita. Tutte cose libere, legittime, ma arrivare a dire che quel tipo di diritti devono essere assolutamente inalienabili mentre quello di un bimbo che può nascere e avere una mamma e un papà non lo è, ecco io lo trovo veramente ai miei antipodi».

«Allora, io rispetto la loro battaglia sui diritti perché prima di tutto sono rispettosa delle persone. Dico la verità: io ho un cugino omosessuale a cui voglio un bene dell’anima e lui, pensate, mi vota pure. Ho un sacco di amici omosessuali, tanti. E tutti mi chiedono di continuare a mantenere questo tipo di fermezza, soprattutto sul tema dei bambini e delle famiglie omogenitoriali. Ciò detto, io non li ho mai offesi, non credo che si sentano offesi e non credo che questa società li offenda. Credo molto nel contrario. Ritengo molto offensivo il gay pride: è volgare, è un’imposizione, è un’occupazione, è una violenza. Ognuno può avere la propria sessualità, la propria personale posizione, la propria sensibilità. Ma questo non deve sostanziarsi in un’imposizione sugli altri».

Lei una volta ha detto: «Se diventassi capo del mondo, non farei nidi, ma darei soldi alle mamme per stare a casa con i figli». Crede che la maternità in Italia, oggi, sia minacciata?

«Era un’iperbole. Comunque, confermo: la maternità è minacciata moltissimo. Molte donne sono costrette a scegliere se diventare madri o continuare a lavorare. Le imprese pagano il prezzo della maternità, che è tutto scaricato sull’impresa oggi. E non stiamo parlando della grande impresa che ce la può fare. Ma pensiamo a dove sono impiegate le donne. Ad esempio, lavorano come parrucchiere. Se un’assistente, una collaboratrice è in attesa, e la parrucchiera non è che ha chissà quale struttura organizzativa, la maternità è tutta a carico della titolare. Che deve prendere un’altra persona perché non può avere lo stesso volume di clienti e il costo, dunque, ricade tutto sull’impresa. Allora, innanzitutto la maternità non può essere un costo scaricato sulle imprese, ma deve essere un investimento per una Nazione, ergo per l’Europa».

«La prossima volta, invece del Next Generation Eu, che è un piano costruito sull’individuo, sulla singola persona, che a seconda della fascia d’età ha delle problematiche e deve essere sostenuta, next time facciamo il Next Family Eu, ovvero strutturare delle risorse per aiutare la famiglia, quindi la maternità. Perché non esiste famiglia senza maternità: voi maschi non potete fare figli, potete comprarli. Abbiamo visto soprattutto gente danarosa e famosa comprare figli, ma altrimenti un figlio è generato dalla madre. E per aiutare quella mamma a non essere disperata, a non avere un solo figlio perché non può mantenerne un secondo, io devo erogare delle risorse. E siccome tra le cose importanti e buone dell’Europa ci sono le risorse, noi quelle risorse dobbiamo destinarle alla maternità, materia che oggi non è assolutamente affrontata a Bruxelles».

Il personaggio, diciamo neo-politico, più chiacchierato di queste europee è il generale…

«È un amico. Lei non mi farà dire nulla. La premessa è che il generale Vannacci è un amico che stimo. È un militare che ha fatto una carriera carriera brillantissima, un uomo che conosce tantissime lingue straniere e ha capacità di strategia. E adesso…».

Adesso proseguo con la domanda: cosa pensa della proposta di Vannacci di istituire classi differenziate per i ragazzi con disabilità?

«Rispondo come ha risposto il paralimpico Norberto De Angelis: io credo che Vannacci sia stato assolutamente male interpretato. È, come ha detto lei, un personaggio neo-politico, e noi purtroppo abbiamo sempre bisogno di personaggi. A me spiace un po’ perché io faccio politica seriamente da tanti anni. Ecco, io mi considero una che nella politica ci mette la mia vita e il mio tempo, quindi i personaggi che arrivano un po’ così mi dispiacciono. Però è stato mal interpretato e De Angelis afferma: guardate che quello che ha detto Vannacci è di fare di più e in maniera specifica per i bambini con disabilità. Lo rivendico da assessore all’Istruzione. Oggi, mentre io e lei parliamo, gli insegnanti di sostegno in Veneto sono pochissimi. Sono pochissimi perché ci sono altre regioni che ne hanno molti di più e quindi, in un vaso non comunicante, c’è qualcuno che ha preso anche quello che doveva stare qua. E abbiamo bambini con disabilità che hanno appena 8 ore alla settimana di sostegno. Come pensiamo che stiano queste creature non accompagnate avendo loro oggettivamente delle problematiche?».

«Allora, avere personale dedicato e avere specifici percorsi è ciò che si chiede. Se lei parla con gli insegnanti, e io ci parlo da 19 anni, ti dicono questo: “Vorremmo più ore di sostegno”, “vorremmo avere insegnanti preparati e dedicati”, non l’igienista dentale, caso realmente accaduto, che siccome ha finito di fare la sua vita professionale, si è annoiata e ha deciso di fare l’insegnante. Tra l’altro ora è diventata persino di ruolo. Non si può: bisogna avere percorsi dedicati e massima attenzione per i bambini con disabilità. Se lei prende solo questo concetto e lo estrapola potrebbe essere letto così: “Donazzan ha detto che per i disabili ci vogliono percorsi dedicati», punto. Ma io non ho detto questo. Ho detto che dentro un gruppo classe, è la famiglia del bambino con disabilità che ti chiede di avere più cose dedicate a lui».

Questione carceri. Ha sentito dell’inchiesta al minorile Beccaria, di Milano. In Italia non sono rispettati i diritti dei detenuti?

«C’è un sovraffollamento oggettivo e il santo padre a Venezia l’ha detto. Ma lo sa questo governo, lo sapevano i governi precedenti: è un problema che ci trasciniamo da almeno 30 anni. So che il ministro Carlo Nordio è molto attento su questo aspetto e sta accelerando, anche con i fondi del Pnrr, le costruzioni di carceri programmate da 30 anni. Quindi il problema c’è. Le aggiungo però che io ho lavorato in questi ultimi anni al tema delle comunità educative. Ovvero non può essere solo la scuola, non può essere solo l’istituzione, ma tutti concorriamo all’educazione. Qualche tempo fa, il procuratore generale di Venezia mi disse: “Assessore, guardi che se io facessi l’equivalenza tra reato minorile e pena conseguente, io avrei bisogno di sette carceri in più solo in Veneto”. In particolare per i minori si deve fare molto di più per provare a recuperarli, tenuto conto che vengono da situazioni devastanti. Ma il tema delle carceri non è svuotarle, ma renderle sostenibili: dunque, vanno costruite nuove carceri. Perché mai dovrà passare il messaggio che se uno sbaglia non paga».

Statisticamente, l’incidenza della popolazione straniera nelle carceri è più elevata rispetto alla percentuale di immigrati sul totale della popolazione residente in Italia. Secondo lei, esiste un problema anche con le seconde e le terze generazioni? Penso al fenomeno molto discusso delle baby gang, in cui spesso confluiscono ragazzi che sono nati e cresciuti in Italia. O ancora, c’è chi ritiene che certi principi distorti vengano veicolati attraverso determinati generi musicali, che la trap e pure alcuni videogame possano agevolare un incremento di microcriminalità. Altro elemento è il degrado urbano. Condivida una riflessione a riguardo.

«Le città educano. Noi siamo una comunità educante. I luoghi ghetto, le periferie degradate generano ulteriore degrado. La teoria del vetro rotto è dimostrata. Affronto però con lei un aspetto che secondo me andrebbe affrontato a livello comunitario. L’Europa si sta occupando del ruolo di internet sui reati. Interroghiamoci su che cosa oggi significa dare un cellulare in mano a un ragazzino di 8, 10, 12, 14 anni. C’è una scuola di pensiero, che io seguo, che sostiene che non bisognerebbe fornire il cellulare ai minori di 14 anni. Altresì, bisognerebbe impedire l’accesso ai social agli under 16 e che, comunque, i social dovrebbero essere vigilati dalla famiglia. L’Europa ha fatto molto in termini di controllo della rete, per esempio sul revenge porn, sulla pedofilia, ma credo che dovremmo potenziare di molto la Polizia postale. Che qualche anno fa, tra l’altro, rischiava di essere cancellata: è l’unico organismo che fa davvero i controlli della rete. Al tempo del governo Renzi, si parlava di accorpare la Polizia postale ad altro, condannandola a non avere più quella specificità. Oggi, invece, è evidente che questa istituzione dovrebbe essere dotata di risorse per avere capacità di indagine maggiore. A livello europeo! Perché la nostra Eurozona vera non è l’euro moneta, ma lo spazio delle reti. Tema che si potrebbe allargare anche al pagamento delle tasse per i grandi colossi del digitale».

«Tornando, però, al tema educativo, bisogna aumentare i controlli: il minore non può essere messo nelle condizioni di essere bombardato. E poi, parliamo di “cattivi maestri” degli anni del terrorismo, sono stati chiamati così e io riprendo quel termine. Oggi ce ne sono tantissimi di “cattivi maestri” e di solito cantano. Allora, non amo la censura e sono per la libertà di pensiero, ma cosa diversa è l’istigazione alla violenza. Mi farò parte diligente in Europa per l’uso che i minori fanno dei telefonini. Perché se un genitore dice, con le braccia allargate, “ce l’hanno tutti in classe”, io devo dare una mano a quel genitore. Lui vorrebbe vietarlo. E poi c’è anche il resto. Pensi che tutte le grandi multinazionali che vendono e commercializzano videogiochi per ragazzini guadagnano più della somma delle multinazionali che vendono film e musica online. Il bambino, però, non ha un suo potere d’acquisto. Io so che c’è qualcuno che paga. Qua occorre fare qualcosa di serio».

Anche questo 25 aprile è passato. Come ha celebrato la Festa della Liberazione?

«La aspettavo – Donazzan sorride -. Finché sarà una festa di così grande odio è difficile per me celebrarla, perché la mia famiglia viene dall’altra parte della storia. Sono rispettosa della democrazia, rispettosa della Costituzione, che non è antifascista. Nasce dalla fine del fascismo, che è diverso. Perché il fascismo è finito, lo comunico a quelli che credono sia ancora una minaccia: è finito il 29 aprile con la morte del suo capo appeso a testa in giù in piazzale Loreto. E mi pare che ancora si continui… Di recente Sergio Mattarella ha dato solidarietà al presidente Ignazio La Russa per quell’immagine di lui capovolta che, peraltro, è stata pubblicata proprio il 25 aprile. Quindi era un’allusione voluta. Ecco, quello è odio. Io sono stata qualche anno fa al congresso regionale della Cgil, in quanto assessore Donazzan. Vengo delegata dal mio presidente, quindi devo essere molto rispettosa: è la delega del presidente. Nel suo intervento di chiusura il segretario regionale dice. “Non c’è posto per nipoti e nipotini dei fascisti”. Io sono nipote. Quando intervengo faccio un intervento istituzionale, porto i saluti del presidente».

«Poi mi sono tolta la giacca di assessore regionale e dico alla platea: “Io sono una nipote”. Sono rimasti atterriti. Era alla fiera di Verona, ricordo che c’era un mare di bandiere rosse. E aggiungo: “Finché non mettiamo una parola fine e non guardiamo a quello che dovremmo fare per questa Nazione, finché non metteremo fine agli odi, io non parlerò mai male della mia famiglia. È la mia famiglia. Teniamoci la nostra storia, che ha avuto in corso: il fascismo è finito, ha perso, è morto il suo capo. Oggi non esiste fascismo, oggi esiste un odio antifascista pericoloso. L’ultimo a cadere è stato Marco Biagi. Chi ha armato la mano che ha ucciso il giuslavorista si è dichiarato antifascista. Ha richiamato quell’omicidio sotto le insegne dell’antifascismo. Allora io vorrei un 25 aprile legato alla fine della guerra. Certo, è finita la guerra, è nata la democrazia, c’è stato un referendum, e la storia ha avuto un altro corso. Ma possiamo stare con la testa indietro così? Anzi, magari con la testa indietro, qui c’è chi continua ad alimentare e a rigenerare odio. Io non ho parole di odio e mai ne avrò…».

…nemmeno nei confronti di un giornalista che le chiede se lei si definisce antifascista?

«No. E no io non sono antifascista, perché non sono anti di niente».

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