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Niccolò Fabi: «Ho superato l’età fertile della creatività: sono sul crinale per diventare ridicolo» – L’intervista

13 Maggio 2025 - 11:32 Gabriele Fazio
Si chiama «Libertà negli occhi» il nuovo album del cantautore romano, che a 56 anni ha deciso di chiudersi in una baita in montagna, davanti ad un piccolo lago ghiacciato, per dargli vita

Si intitola Libertà negli occhi il nuovo album di Niccolò Fabi. Un disco in cui il pubblico ritroverà la straordinaria poesia del cantautore romano, tra i più amati della sua generazione, ma con un’ispirazione diversa. Data, come dice a Open, «da un luogo, ancora prima delle canzoni», una baita in mezzo al nulla, dinanzi un lago ghiacciato, supportato da una band formata anche da cantautori come lui, come Roberto Angelini, Emma Nolde e Alberto Bianco, un luogo che ha dato vita a canzoni che «ad ascoltarle così, dentro casa mia, non mi davano la sensazione di meritare di essere pubblicate, cioè non bastava». I nove pezzi del nuovo album di Fabi verranno presentati per la prima volta dal vivo lì dove sono stati incisi, in Val di Sole a Vermiglio (TN), Località Palù, sabato 14 giugno, con un concerto gratuito.

Parli delle canzoni con una certa intimità, come se rappresentassero qualcosa in più…

«Nella mia vita ho sempre pensato che le canzoni dovessero darmi la possibilità di vivere anche altro. Il grande ringraziamento che devo fare a questa vita e alle canzoni non è tanto avermi permesso di suonare, ma avermi fatto fare altre cose. Viaggiare, conoscere cose e persone. E, nello specifico, in questo caso, rivivere un sogno che più o meno tutti avevamo quando eravamo piccoli: avere una sala bella a disposizione, tanti giocattoli a forma di strumento e sentirsi liberi di suonare, senza un bersaglio da colpire»

Ti sei sentito poco libero durante la tua carriera?

«No, ma negli ultimi trent’anni, da quando è diventata un’attività pubblica, per me forse meno di altri, inevitabilmente è legata anche a un’aspettativa, che ci metti da solo ma che senti arrivare anche dall’esterno»

Questa volta invece?

«Questa volta invece fare un’esperienza in cui mi dimenticassi totalmente dell’interlocutore finale, del destinatario, qualunque esso sia, l’ascoltatore, i miei amici, il mio pubblico, la casa discografica, che ringrazio comunque della fiducia fondamentale, era un modo di riappropriarmi, di ritornare alla matrice originale del fare musica. Allora, a quel punto, le canzoni sono tornate ad avere un significato, altrimenti da sole probabilmente non sarebbero state pubblicate»

Lo hai intitolato Libertà negli occhi, ascoltando la title track ci si accorge che non è un concetto di libertà impegnato, politico, ma quello più semplice e giornaliero…

«Si, intendevo la libertà di guardare alla realtà, alle cose, nella maniera più pura possibile, senza quello strato di polvere, disillusione, sovrastrutture, conoscenza, che poi la vita inevitabilmente ti dà. Parlo dello sguardo limpido che riconosco nello stupore dei bambini in alcune occasioni, quello che inevitabilmente perdiamo. È vero, la parola libertà può essere utilizzata in tantissimi contesti, anche più sociali che personali, però io nel mio percorso artistico in genere scelgo di occuparmi del personale, perché credo che forse è quella la sensibilità maggiore che ho, mi dà anche la sensazione di poter essere meno retorico. Nelle canzoni sul sociale la scivolata sul qualunquismo è quasi automatica, invece per quel che riguarda un osservatorio più introspettivo, mi rendo conto di poter essere forse più utile»

Hai detto che a 56 anni è un po’ più difficile per te scrivere canzoni…

«Il problema è più che altro etico: è ancora giusto scrivere canzoni nel momento in cui si è persa l’età fertile della creatività? I grandi dischi dei cantautori sono quasi sempre quelli che sono avvenuti nei primi 20 anni di creatività, dopodiché avviene una ricapitolazione, più o meno interessante, più o meno noiosa. La forma canzone è un oggettino con 20 parole che dura 4 minuti,  riuscire ancora a mantenere alta la vitalità, la necessità, è complesso. A meno che la vita non ti metta di fronte ad alcuni eventi che sono talmente dirompenti per cui ti si ravviva per resurrezione la vitalità, in altri casi però secondo me la maturità ha altri mezzi di comunicazione»

Intendi altre forme d’arte?

«Già la pittura è diversa, la letteratura ha uno spazio più adatto per raccontare sfumature dello sguardo adulto o vecchio. Secondo me la canzone è più un jeans e un giubbetto di pelle: indosso a un ragazzo è figo, addosso ad un settantenne è un po’ ridicolo. Quindi io sto proprio sul filo, sul crinale per essere ridicolo»

Deve essere dura convivere con questa convinzione se di mestiere scrivi canzoni…

«Dipende sempre dall’obiettività, dalla lucidità che hai nel voler guardare le cose. Io forse mi sento sufficientemente sicuro per non dovermi raccontare minchiate. Poi comunque mi aiuta a dire “ok, probabilmente a livello di ispirazione non sarò più quello che ero prima o che sono stato in alcuni momenti. Non sempre, perché anche nella gioventù ci sono dei grandi buchi di creatività, però in linea di massima…”. A quel punto, consapevole di questo, come faccio a ravvivare, a rendere comunque brillante, scintillante la cosa che faccio? Magari non nella parte della creatività, della scrittura, ma nel modo in cui vivo la musica, la registro, la suono»

Quindi non hai uno studio a casa come fanno tanti?

«È vero, molti si fanno lo studio in casa per essere comodi, e la vedono come una figata. Per me è la morte, è la tomba, non farei mai nella vita quella cosa lì. Già non hai più la vitalità di prima, stai pure in pantofole! La comodità è la morte della creatività, quindi io faccio tutto quello che posso per rendermela scomoda. Poi scomodità si fa per dire, stavo in una baita meravigliosa davanti a un lago ghiacciato, però abbiamo dormito sulle brandine per una settimana, in uno studio che non era uno studio di registrazione, quindi con delle incertezze sull’esito professionale di quello che stavamo facendo. Proprio questa situazione ha fatto sì che la nostra sensibilità, la mia in particolare, che ero il più adulto, fosse comunque pienamente attiva, perché avevo degli scenari di fronte a me nuovi, emozionanti»

Hai parlato di aspettative, vorrei sapere a cosa ti riferisci nello specifico: quelle del pubblico? Quelle della discografia? O forse le aspettative che provengono dal confronto con tutto ciò che di meraviglioso hai scritto in passato?

«Le aspettative che io posso sentire, per fortuna, sono in minima parte quelle della scatola discografica e dovrò sempre ringraziare la BMG per avere una grandissima fiducia in me. Hanno preso questo progetto a scatola chiusa, pur sapendo delle incognite, forse perché si fidano del fatto che comunque avrei in ogni caso raggiunto un livello minimo accettabile. Da parte del mercato no, perché io ho fatto un passo indietro rispetto al mercato, inteso proprio con le sue regole mediatiche, assumendomi i rischi inevitabili che ci sono dietro una scelta del genere, perché è evidente che perdi impatto sul pubblico nel momento in cui non ci sei»

Quindi parliamo del pubblico?

«Il mio impatto sul pubblico è tendenzialmente sulle persone che mi conoscono e che mi seguono e che mi vengono a cercare. E di fronte a loro io questa aspettativa la sento, sì. Negli anni mi rendo conto che mi hanno trasferito anche la responsabilità di raccontargli le loro emozioni, di metterle sul piatto, di scriverle, di raccontarle, di essere di conforto in momenti più complicati, perché ovviamente spesso le mie canzoni per l’atmosfera che hanno, per i temi che hanno, sono molto adatte a accompagnare quei momenti un po’ più delicati. E in quel senso mi rendo conto che sento la possibilità di deludere le aspettative»

Invece che aspettative hai su te stesso?

«Il giudizio personale rispetto a quello che faccio è sempre stato il più severo. Da una parte può essere stato un vantaggio, perché non mi ha fatto sicuramente sedere su delle certezze o su una grande autoesaltazione, che non ho mai avuto, nel bene e nel male, perché a volte invece autoesaltarsi è un’esperienza, credo, meravigliosa e legittima. Però allo stesso tempo mi ha probabilmente impedito di godere di alcune cose e forse di non osare»

È una cosa che ti rimproveri?

«Si. Non ho mai avuto il coraggio di osare, di andare veramente lontano dalle mie cose più naturali per sperimentare un linguaggio veramente diverso. Non mi riferisco a mettere strumenti diversi, parlo proprio di una comunicazione diversa. Sto parlando di scelte più avventurose, con il rischio di sbagliare. Più probabilmente infatti ho avuto paura di sbagliare. Però diciamo che la cosa positiva è aver costruito un’identità riconoscibile, uno stile, se vogliamo, che quando mi voglio confortare dico “Tutto sommato è meglio saper fare una cosa bene che provare a farne quattro ed essere sempre un po’ approssimativo su tutte e quattro”»

Se posso, le tue canzoni danno la sensazione di essere ancora perfettamente vive e credo che, al di là dell’affezione, anche il tuo pubblico te lo riconosca…

«Si, ma il linguaggio è sempre molto simile a se stesso: è il mio modo di parlare, di pensare, di articolare i pensieri. Mi rendo conto che artisticamente può essere stato un limite, avrei potuto essere anche un po’ più leggero, più ironico, più scanzonato, giocare un po’ con me stesso. Io non sono un grande giocherellone con me stesso e questo rischia di essere un ostacolo all’espansione del proprio linguaggio, del proprio vocabolario»

Tu proponi poesia e delicatezza in un momento in cui sembrano le cose più démodé che esistano…Ci pensi mai a questo aspetto del tuo fare musica?

«Ma sì, ci penso come conseguenza del mio essere su questo pianeta, il problema è che io, di fronte a questa evoluzione della modalità di fruizione della musica, faccio fatica proprio a non sentirmi perennemente estraneo. E quindi quella è una bella fatica. Però io ho la fortuna di aver costruito attorno a me negli anni un gruppo di persone che mi dà la sensazione di essere in buona compagnia, che questa sensazione di estraneità non è solamente la mia, ma ce l’ha un gruppo di persone sufficiente per creare un’ipotetica scialuppa di salvataggio. Ammetto che a volte i concerti, più che un modo per far sentire le canzoni, sono anche un modo per me per respirare»

Un po’ come è stato il concerto insieme a Gazzè e Silvestri al Circo Massimo la scorsa estate?

«Si, esatto. Vedere improvvisamente un grande evento che non aveva le caratteristiche del grande evento, ma che fosse una specie di riunione di condominio maxi, dove non c’erano discussioni, dove non c’erano spintoni, dove non c’era gente che si accalcava per venire sotto il palco, dove le persone erano distanziate e occupavano tutto il Circo Massimo, dove c’erano pochissimi cellulari…Ecco, quelle sono delle giornate che sono, devo dire, confortanti, in cui ho avuto la sensazione che potevo cantare la cosa più intima del mondo di fronte a tante persone e non essere inopportuno, di non essere decontestualizzato»

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