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La vita dei rap, il nuovo album e lo scudetto del Napoli. Luchè: «Basta urlare al miracolo se vinciamo, lo meritiamo» – L’intervista

23 Maggio 2025 - 05:46 Gabriele Fazio
«Secondo me si invecchia bene se tu rimani autentico. Io vivo una vita abbastanza punk, con un rollercoaster di emozioni, di flirt, di delusioni, di investimenti, di rischi, di cose che mi fanno bene e mi fanno male, per questo il mio disco risulta credibile», dice a Open il rapper napoletano

Il nuovo album di Luchè, uno dei padri della scena rap napoletana, si intitola Il mio lato peggiore. Titolo bugiardo, in realtà il disco, il sesto della sua carriera da solista, composto da 18 tracce, è assai variegato, mostra diversi lati del rapper classe 1981 e sono tutti interessanti. Dai brani più intimi alla purissima trap, dal pop più leggero ai banger più infuocati, dentro questo nuovo lavoro di Luchè in realtà troviamo non solo tutto quello che Luchè ha da offrire, ma tutto quello che il rap italiano in generale oggi regala al proprio pubblico.

C’è un tema relativo alla vittoria e alla sconfitta in questo disco?

«Per me la vittoria è dare il meglio di sé e vivere delle cose che sono importanti per noi. Qua sembra sempre che dobbiamo dimostrare di essere tutti felici e tutti più avanti di un altro, a me sembra una competizione che ci allontana dalla nostra spiritualità, una propaganda di chi comanda il mondo per far sì che noi ci perdiamo come popolo. Io invece ho voluto ragionare sul concetto personale di vittoria, perché voglio essere in contatto con quello che fa bene a me, io voglio arrivare ad essere felice della mia vita, non della mia carriera. La mia carriera è solo uno dei vari momenti della mia vita, ma non la determina. Va male un disco? Va bene un disco? Io non devo mai mettere in dubbio il mio valore»

Nel pezzo La mia vittoria dici: «Fare il disco chе dura di più, non quello che vendе di più»

«Qua mi sembra sempre una gara a chi ce l’ha più lungo, nessuno vuole fare più musica che emozioni le persone e che resti nel tempo. Io non sono così, voglio fare delle canzoni generazionali che restino nell’anima della gente».

Non sono in tanti a pensare al mercato discografico in questi termini…

«Vorrei che tutti ragionassero così, avremmo dei dischi migliori forse».

Questo della vittoria è un elemento assai “venduto” nel rap…

«Sì, è vero, forse perché è un genere che nasce dalla strada, è competitivo di base, e poi è sempre stata la musica del riscatto sociale, quindi comunque di conseguenza c’è questo mito del farcela».

Però queste storie di riscatto sociale, specie nei rapper più giovani, alle volte sono piuttosto plastificate…

«Assolutamente. Sì, sono d’accordo. È diventato un cliché. Il punto è che la tecnologia fa sembrare tutto talmente facile che tutti ci provano, ma ci provano per un motivo sbagliato. Non perché hanno un’urgenza personale, artistica, ma perché vogliono darsi delle arie. Però poi la musica non la freghi. La musica ti può premiare, perché magari ti va di culo una linea melodica, ma poi dopo ti punisce se tu non sei autentico. Non si può prendere in giro una cosa così spirituale come la musica»

Anche perché, a proposito di vittoria, servirebbe capire cosa vuol dire veramente farcela…

«Gli artisti che ce la fanno per me sono quelli che hanno una carriera lunga, non quelli che ce la fanno per sei mesi. C’è una grande confusione che in qualche modo inflaziona il mercato e rende tutto estremamente ridicolo, tutto “TikTokabile”, tutto della durata di 15 secondi. Però se vogliamo parlare di musica poi alla fine rimane chi veramente ha talento»

Come invecchia un rapper?

«Dipende dalla tua vita personale, dipende da come sei nella quotidianità. Io mi sento estremamente giovane, non credo di essere immaturo ma sicuramente non vivo secondo gli schemi tradizionali della società, che secondo me è stata costituita per controllare la gente, demotivarla e derubarla del proprio potenziale. Mi rifiuto totalmente. Devi essere molto in contatto con te stesso»

Anche onesto con te stesso?

«Certo. Io vivo proprio la vita da rapper, non è che lo faccio per mestiere. Non è che in realtà c’ho famiglia, sto a casa, do il latte alla bambina e poi faccio finta di vivere la vita da rapper nei dischi. Si sentirebbe. Secondo me si invecchia bene se tu rimani autentico. Io vivo una vita abbastanza punk, abbastanza rock and roll, con un rollercoaster di emozioni, di flirt, di delusioni, di investimenti, di rischi, di cose che mi fanno bene e mi fanno male, per questo il mio disco risulta credibile»

L’Università di Messina ha negato la laurea ad honorem a Marracash, che ne pensi?

«Lui se la merita. Marra è uno scrittore, è uno che io non so come fa a mettere in rima tutte quelle immagini. Io sarei stato favorevole, il nostro genere viene denigrato troppo, troppa gente che non ne capisce niente ma ne parla, perché noi siamo troppo facili da colpire, perché il nostro immaginario rappresenta tutto quello che l’italiano medio odia. Siamo esagerati, esasperati, provochiamo, siamo pieni di tatuaggi…Però in realtà siamo persone, anche estremamente fragili. C’è tanta poesia anche nella violenza dei nostri testi, c’è tanta verità. Siamo come calciatori, noi diamo per scontati questi cross di cento metri che arrivano esattamente sul piede dell’attaccante, ma quelli sono dei maghi»

Come diamo per scontato lo scudetto del Napoli?

«No, non lo diamo per scontato assolutamente. Però voglio lanciare un altro messaggio al popolo napoletano, che io amo e del quale faccio parte: cerchiamo di credere che anche noi meritiamo la vittoria. Non meravigliamoci, non gridiamo al miracolo quando vinciamo. Noi siamo un popolo vincente, ma che purtroppo è convinto di non meritare, per cui preferiamo credere al miracolo. La vittoria di uno scudetto sarebbe un’enorme felicità per tutti, ma deve essere normalizzata, non deve essere un miracolo, sennò sembriamo sempre gli scappati di casa che vincono la lotteria per caso. Non è vero: noi siamo un popolo con una grosso potenziale»

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