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Dazi Usa sull’acciaio, cosa cambia per l’Italia? Gozzi (Federacciai): «L’export andrà a zero, temo l’invasione di prodotti cinesi» – L’intervista

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Il presidente di Federacciai commenta a Open l'ultima mossa di Trump: «Gli obiettivi green per il nostro settore sono irraggiungibili, rischiamo la chiusura degli altiforni»

La decisione di Donald Trump di raddoppiare – dal 25% al 50% – i dazi sull’acciaio avrà conseguenze tutto sommato trascurabili per le acciaierie italiane, ma rischia di spalancare il mercato europeo ai produttori cinesi. Ne è convinto Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, che in questa intervista a Open commenta l’ultima mossa commerciale di Washington e riflette sulle prospettive del settore in Europa, alle prese con barriere tariffarie sempre più alte, competizione da Oriente e rigidi vincoli ambientali.

Cosa cambia con i dazi Usa che passano dal 25% al 50%?

«L’aliquota del 25% sull’acciaio è stata introdotta per la prima volta da Trump nel 2018 e ha provocato una riduzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti di circa due terzi. Nel 2018 esportammo 900mila tonnellate di acciaio, nel 2024 non siamo arrivati a 300mila. Adesso che il dazio raddoppia, le esportazioni verso gli Usa scompariranno. Ma si tratta di cifre quasi insignificanti: 300mila tonnellate su su 21 milioni di tonnellate prodotte ogni anno. La mia preoccupazione più grande è un’altra».

Quale?

«I dazi di Trump su acciaio e alluminio si applicano a tutto il mondo, non solo all’Europa. E noi temiamo che questo possa portare a un’invasione di acciaio dalla Cina, che non riesce più a esportare negli Usa e si riverserà sul mercato più aperto del mondo, ossia il nostro. Ora l’Europa deve fare i conti con se stessa e proteggersi».

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ANSA/Luca Zennaro | Antonio Gozzi, presidente di Federacciai

Come dovrebbe proteggersi?

«Con barriere doganali sull’acciaio importato dalla Cina. Ad oggi esistono solo quote di importazione per i singoli Paesi, ma non sono sufficienti».

Insomma, si dovrebbe fare come con le auto elettriche?

«Proprio come le auto elettriche, anche l’acciaio cinese è fortemente sovvenzionato, perché la stragrande maggioranza delle acciaierie in Cina è di proprietà statale. Questo in gergo viene chiamato unfair trade, commercio sleale. Per questo dico che l’Europa deve fare i conti con se stessa, con i dazi interni che si è autoimposta e con le politiche anti-industriali che ha approvato in questi anni».

Si riferisce al Green Deal?

«Per il nostro settore sono state abolite le quote gratuite per gli altiforni previste dal Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism, il meccanismo dell’Ue che impone un costo sulle emissioni di carbonio delle importazioni da Paesi esteri – ndr). Forse non si sono resi conti che gli altiforni europei, che producono il 60% dell’acciaio complessivo, chiuderanno. Non ci sono ancora tecnologie abbordabili e molti progetti stanno saltando, a partire da quelli con l’idrogeno, che ha costi molto elevati. Noi italiani siamo leader nell’acciaio green, quello prodotto con forni elettrici, che rappresenta circa l’80% della produzione nazionale. Il problema è che alcuni tipi di acciaio, come quello per le carrozzerie delle auto, si possono fare solo negli altiforni».

Se l’Italia è leader europea nella produzione di acciaio green non ci converrebbe difendere gli obiettivi europei di sostenibilità?

«Anche se abbiamo molti forni elettrici, noi non siamo favorevoli alla chiusura degli altiforni. Innanzitutto perché, come le dicevo, una parte di acciaio non si può fare con i forni elettrici. E poi perché dovremmo aumentare drasticamente la domanda di energia, che già è scarsa. Ha ragione Tony Blair quando dice che gli obiettivi green sono irraggiungibili. La decarbonizzazione sta portando alla desertificazione industriale, ma in un deserto non c’è niente di verde».

Nei mesi scorsi la Commissione europea ha annunciato che presenterà un piano per la siderurgia. Cosa ne pensa?

«Nel piano per la siderurgia europea non c’è niente di concreto, nemmeno il rinvio dell’abolizione delle quote gratuite per le emissioni. I documenti che escono dalla Commissione europea fanno un ossequio al piano Draghi, ma poi di misure concrete non ce ne sono».

Quali sono gli altri problemi che si trova ad affrontare il vostro settore?

«Innanzitutto il costo dell’energia. Si è totalmente incapaci di fare una politica comune dell’energia in Europa. E l’Italia, che pure ha il primato di decarbonizzazione dei forni elettrici, paga l’elettricità più cara del continente. Poi c’è il tema delle materie prime critiche: perché non si mette un dazio sull’uscita del rottame ferroso? Ogni anno ne escono 20 milioni di tonnellate, principalmente verso la Turchia, che non ha nemmeno ratificato il protocollo di Kyoto».

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EPA/Al Drago | Donald Trump firma l’ordine esecutivo che introduce dazi su acciaio e alluminio

Come dovrebbe reagire l’Ue ai dazi di Trump?

«Io credo che non finirà così. Trump cambia idea ogni giorno e penso che anche questa volta stia usando i dazi come leva negoziale. La posizione che dovrebbe assumere l’Ue è continuare a trattare in maniera unitaria e ferma, ma non isterica. Bisogna tenere i nervi saldi. Poi, certo, abbiamo perso una grande occasione».

A cosa si riferisce?

«Sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti avevano proposto un’area di libero scambio con Canada, Ue, Corea, Giappone, Australia e Messico senza più dazi, ma a condizione che l’Europa mettesse dei dazi nei confronti della Cina. L’Ue ha rifiutato, dicendo che sarebbe stato contrario alle regole del Wto, ma oggi saremmo molto più forti».

Perché l’acciaio è sempre il primo settore a essere colpito dai dazi?

«Perché è strategico, a maggior ragione in un’epoca turbolenta e in cui la sicurezza strategica è tornata centrale. In più, l’acciaio è un indicatore di ciclo: quando sale la domanda di acciaio vuol dire che l’economia mondiale sta salendo e che aumentano gli investimenti in navi, treni, auto, infrastrutture».

Foto di copertina: EPA/Christopher Neundorf

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