I numeri dei danni gonfiati da Confindustria, l’alimentare che si lamenta più del dovuto. Ecco cosa non torna nel pianto italico sui dazi Usa


C’è una cifra, quella di 22,6 miliardi di euro di impatto del 15% dei dazi Usa sulle imprese italiane, diffusa dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, e ampiamente utilizzata nel dibattito politico in queste ore. È un numero che sicuramente fa colpo, ma incomprensibile. Le esportazioni italiane verso gli Usa sono state infatti di 64,7 miliardi di euro nel 2024. Applicando meccanicamente quel 15 per cento, dunque, l’aggravio sarebbe inferiore della metà al danno ipotizzato da Orsini, e cioè di 10 miliardi di euro. Quindi Orsini aggiunge altri 12,6 miliardi evidentemente pensando che il vero danno sarà l’espulsione dal mercato americano delle imprese italiane, perché i loro prezzi non sarebbero più competitivi. Ma anche questa ipotesi è opinabile.
Il costo matematico dei dazi è di 10 miliardi, non 22,6 come dice Confindustria
Per fare calcoli che abbiano un senso naturalmente bisognerebbe leggere i dettagli operativi dell’accordo sui dazi siglato per ora nei principi dal presidente Usa, Donald Trump e dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Cambia parecchio ad esempio se il 15% di dazi omnicomprensivo assorbe o meno i dazi già esistenti, che in media erano intorno al 5%. Se fosse così, l’impatto sull’export italiano si ridurrebbe a 6-7 miliardi di euro. Ma servono i dettagli, tanto più se si pensa che di quei 64,7 miliardi di export ben 12,8 miliardi riguardano macchinari e apparecchiature e più di 10 miliardi di euro il settore farmaceutico. Può essere che un rialzo dei prezzi insieme all’indebolimento del dollaro metta fuori mercato qualche settore italiano. Ma bisogna vedere quale è la concorrenza nel mondo per quei prodotti. Gli altri paesi europei vivono ora la stessa condizione dell’Italia; quindi, non è da lì che può venire il pericolo. E difficilmente può venire da altre parti del mondo, visto che nella maggiore parte dei paesi asiatici i dazi imposti da Trump sono ben più alti di quelli imposti alla Ue. Fra i pochi paesi che possono approfittarne c’è in sostanza solo la Gran Bretagna, lei cui imprese oggi esportano negli Usa con un costo di 2/3 rispetto a quelle del resto di Europa (hanno infatti dazi del 10%). Loro possono rosicchiare quote di mercato anche alle aziende italiane, ma la dimensione del fenomeno si potrà vedere solo fra molti mesi.

La corsa al ristoro dell’industria alimentare, la meno danneggiata di tutti. Ecco perché
Ora è normale che le imprese si lamentino e che cerchino di avere qualche “ristoro” da fondi pubblici europei o italiani. Però calma e sangue freddo anche in questo caso. Fra i primi a lamentarsi ad esempio c’è l’industria alimentare italiana, cui il governo di Giorgia Meloni è assai sensibile, tanto da averla convocata per prima a un tavolo di crisi a Palazzo Chigi per ipotizzare ristori. Eppure è proprio quello alimentare il settore che soffrirà meno i dazi, per un motivo semplice: i dazi al 15% non si applicheranno sul prezzo finale da offrire al consumatore, ma solo sul prodotto da esportare. Saranno senza dazi sia la distribuzione del prodotto che la sua commercializzazione, che influiscono in media sul 50% del prezzo finale al consumatore. Quindi è come se per questo settore i dazi invece di essere del 15% fossero in pratica del 7,5%. Faccio qualche esempio guardando il carrello della spesa di un supermercato Walmart. Una confezione da 170 grammi di parmigiano reggiano Zanetti oggi è venduta a 6,98 dollari. Dopo i dazi al massimo salirà di 52 centesimi, a 7,50 dollari. Una bottiglia di prosecco La Marca è venduta oggi a 15,98 dollari. Con i dazi potrebbe salire a 17,18 dollari, rincarando di 1,2 dollari. Una confezione da 6 bottiglie di acqua San Pellegrino viene venduta oggi a 13,12 dollari. Rincarerebbe meno di un dollaro. Il prosciutto crudo costerebbe 37 centesimi l’etto in più. Una mozzarella Galbani da 170 grammi rincarerebbe di 20 centesimi di dollaro. Una bottiglia da mezzo litro di olio di oliva extravergine Bertolli costerebbe 63 centesimi in più. Una confezione da 453 grammi di penne De Cecco con i dazi aumenterebbe di 23 centesimi, arrivando a 3,05 dollari. Scapperanno i consumatori con rincari di questo tipo? Sembra improbabile. E in ogni caso alle aziende per tenere quote di mercato basterebbe assorbire qualcosa di quel rincaro, assottigliando i margini che oggi non mancano.

Le critiche alla Von der Leyen non tengono conto della realtà: l’Ue dipende troppo dagli Usa
Oggi si critica la Von der Leyen per essere stata debole nella trattativa con Trump, e non avere minacciato in risposta dazi europei pesanti sulle merci Usa. Lo si fa però senza tenere conto della realtà, che ha una certezza difficile da smontare: il coltello dalla parte del manico nella trattativa era saldamente in mano Usa. La Ue nel 2024 ha esportato beni in Usa per 532,3 miliardi di euro. E ha importato dagli Stati Uniti beni per 334,8 miliardi di euro. C’era uno sbilancio quindi di 198,2 miliardi di euro a favore dell’Europa. Se entrambi mettessimo dazi del 30%, le imprese Ue avrebbero le ossa rotte due volte più di quelle americane. Poi certo, c’è uno sbilancio a favore degli Usa nei servizi. Ma per fare la voce grossa gli europei dovrebbero avere un’alternativa, altrimenti si farebbero male da soli. Supertassa su American Express, Visa o Mastercard? Sono tutte americane, ma che alternativa c’è in Europa oggi per sostituirle e fare in modo che i dazi europei non ricadano tutti sui consumatori europei, mettendo le ali all’inflazione? Supertassa su Facebook, Google, X e tutti gli altri? Sì, e con che cosa si possono sostituire in Europa senza che tutto ricada sugli utenti europei? O si vuole colpire con i dazi Amazon, distruggendo oltre i consumatori anche tutte le pmi europee che si sono affidate a quel canale di vendita? La realtà è che nei servizi l’Europa dipende totalmente dagli Usa. E non da ora. Bisognava pensarci per tempo lustri fa. Ora non c’è soluzione.