La furia di Meloni sul caso Almasri: «Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie»


«Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie». Giorgia Meloni è furiosa per il caso Almasri. E per la sua archiviazione chiesta dal Tribunale dei Ministri. E si sfoga: «Sono il capo del governo. Non mi aspettavo che si potesse dire che i miei ministri governano a mia insaputa». Perché la tesi che vede i ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio e il suo sottosegretario Alfredo Mantovano che decidono di rispedire il torturatore libico a casa con un jet della presidenza del Consiglio è per lei offensiva. «Giorgia non è Giuseppe Conte», dicono i suoi collaboratori ricordando quando il leader M5s prese le distanze dall’allora suo ministro Matteo Salvini per Open Arms. «Una tesi palesemente assurda», secondo la premier.
Alice nel Paese delle Meraviglie
Le parole di Meloni le riporta La Stampa. La premier le ha pronunciate mentre era ancora ad Ancona. La notizia della sua richiesta di archiviazione l’ha appena data sui social network. Il retroscena di Francesco Malfetano racconta che a Palazzo Chigi assicurano di «non avere un teorema» sull’interpretazione della decisione. Ma fino a pochi giorni fa ai vertici del governo si dava quasi per scontato che l’unica autorizzazione a procedere sarebbe stata formalizzata nei confronti di Nordio. Il coinvolgimento di Mantovano e Piantedosi è arrivato a sorpresa. Alimentando inel governo l’idea di una «volontà politica» dei giudici di delegittimare la premier. Da qui la scelta di contrattaccare. Con l’obiettivo di personalizzare lo scontro. E di ribaltare la tesi del Tribunale.
Il voto in Parlamento
Anche perché Meloni sa che l’indagine è a un binario morto. Dopo la chiusura dell’inchiesta il Parlamento si dovrà esprimere con l’autorizzazione a procedere. Ed è scontato che sarà bocciata nei confronti di tutti i protagonisti. A differenza dell’Albania, dove il governo alla fine ha avuto torto e i giudici ragione dall’Europa, qui la premier gioca una partita che sa di aver già vinto. Per questo ne approfitta per fare politica. E riportare lo scontro con la magistratura nell’attualità politica. Anche in previsione di inchieste future. La comunicazione della richiesta di archiviazione le è arrivata nella mattinata di ieri dalla sua avvocata Giulia Bongiorno. Generando molto malumore. E una premier furiosa. La Giunta Parlamentare dovrà esprimere un parere entro 30 giorni una volta formalizzata la richiesta di autorizzazione a procedere. Il voto sarà a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta e, secondo le prime stime, non immediato.
La procura di Roma
Anche la procura guidata da Francesco Lo Voi può avere un ruolo. A piazzale Clodio potrebbe finire la posizione del capo di Gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi. Ritenuta da alcuni responsabile del cortocircuito seguito all’arresto del criminale libico per aver bypassato il ministro Nordio e, per questo, meritevole di dimissioni. Anche il Corriere della Sera parla della rabbia di Meloni. «Assurdo, surreale», è il virgolettato riportato. «Ipotizzare i reati di favoreggiamento e di peculato» per l’espulsione del generale libico «è così poco credibile dal punto di vista giuridico», dicono i suoi, che «coinvolgere nell’accusa direttamente la presidente del Consiglio si sarebbe tradotto in un boomerang».
La rabbia di Meloni
Secondo il quotidiano la scelta dei giudici invece si spiega con l’incertezza. L’accusa per Meloni era quella di favoreggiamento personale. Era stato proprio Lo Voi a ipotizzare un ruolo non attivo della premier nel caso. «In base alle informazioni ricevute dal capo dell’Aise, Giovanni Caravelli — sentito come testimone, ndr — la presidente Meloni era sicuramente informata» della vicenda, scrive la Corte, ma quella fornita dal responsabile degli 007 competenti per l’estero resta una informazione generica poiché «non compare alcun dettaglio o elemento valutabile circa la portata, natura, entità e finalità dell’informazione, specie sotto il profilo della sua condivisione delle “decisioni” adottate».
Cosa dicono le carte
Secondo i giudici quindi si resta nel campo indiziario. «Non essendoci elementi dotati di gravità, precisione e concordanza tali da consentire di affermare in che termini e quando la presidente del Consiglio sia stata preventivamente informata e abbia condiviso la decisione assunta in seno alle riunioni, rafforzando con tale adesione il programma criminoso», è la conclusione dei togati. E dunque, come vuole il nuovo codice, non si può ipotizzare «una ragionevole previsione di condanna, limitatamente alla posizione della sola presidente del Consiglio». E ne va dunque disposta l’archiviazione per entrambi i reati.